Lo spettro di Daesh è ancora vivo, ha solo cambiato nomi e contesti. Lo dimostrano i fatti recenti del Mozambico dove tra il 23 e il 24 luglio, nella provincia nord-orientale di Cabo Delgado, gli scontri a fuoco tra i militari del Ruanda – arrivati in aiuto di Maputo – e gli islamisti di Ansar Al-Sunna hanno causato 30 morti tra i miliziani. Il gruppo, esistente dal 2008 ma in armi dal 2017, è considerato un’estensione africana dell’Isis, e tra i locali è chiamato Al-Shabaab, stesso nome del gruppo jihadista operante in Somalia.
Da ormai quattro anni Ansar Al-Sunna colpisce la zona, e nel 2020 ha preso il controllo del porto di Mocimboa da Praia, base strategica per l’estrazione di gas naturale dal valore di 60 miliardi di dollari. A marzo, gli islamisti hanno iniziato un nuovo attacco nel Paese, costringendo più di mezzo milione di persone a lasciare le proprie case. Per contrastare l’offensiva jihadista, il Mozambico ha chiesto aiuto anche a Russia e Sud Africa, segnale di quanto la guerra all’estremismo islamico sia più internazionale che mai.
Warriors of Africa!
Rwandan troops about to be deployed to Cabo Delgado in Mozambique to restore peace. pic.twitter.com/Mdi3F2xaHT
— Gatete N. Ruhumuliza (@gateteviews) July 23, 2021
A cambiare, appunto, è solamente il contesto, perché sconfitto in Siria e Iraq, l’Isis è tornato in varie forme, in varie parti del continente africano. Oltre al Mozambico, gruppi legati al sedicente Stato islamico sono operativi un po’ ovunque, soprattutto nel Sahel, la fascia tra il deserto del Sahara e il Corno d’Africa che si estende dal Mar Rosso all’Oceano Atlantico. Destabilizzano governi, guadagnano territori, uccidono e rapiscono: ecco chi sono e dove operano.
Sahel, la striscia del terrore
Tra Niger, Mali e Burkina Faso, tre degli otto Paesi della regione (gli altri sono Mauritania, Ciad, Senegal, Sudan ed Eritrea), il terrorismo jihadista ha causato 5 mila morti e 1,4 milioni di sfollati interni solamente nel 2020. I gruppi sfruttano le debolezze dei governi per conquistare terreno e fondare le proprie roccaforti, e nella maggior parte dei casi è necessario l’intervento di forze straniere perché gli eserciti regolari, da soli, non ce la fanno. A gennaio, militari francesi hanno ingaggiato dei violentissimi scontri in Mali con il gruppo Nusrat al-Islam, considerata l’ala militare di Al Qaeda nell’Africa del Nord, uccidendo 100 miliziani tra cui il leader Bah Ag Moussa. A fine 2020 i francesi avevano anche eliminato 20 jihadisti nel nord del Burkina Faso, Paese in cui opera il gruppo Ansour al-Islam. La zona più pericolosa è quella dei “tre confini” tra Mali, Niger e proprio Burkina Faso, teatro di violenze continue. La presenza dei miliziani è anche tra i motivi principali per cui, nella regione, i governi sono sempre più fragili ed esposti a colpi di Stato: tra il 2020 e il 2021 il colonnello Assimi Goita ha rovesciato per due volte l’esecutivo del Mali, e qualche giorno fa è riuscito a salvarsi da un attentato. A fine marzo in Niger c’era stato un tentativo di golpe a due giorni dall’elezione del neo-presidente Mohamed Bazoun, arrivato dopo poco più di una settimana da un attacco in cui 137 civili erano stati brutalmente uccisi nella regione occidentale di Tahoua. Ad aprile il presidente del Ciad Idriss Deby era stato ucciso in un conflitto a fuoco da un gruppo paramilitare e prontamente sostituito al potere dal figlio. Anche per questo già nel 2014 Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad avevano creato il G5 Sahel, organizzazione di coordinamento per la sicurezza regionale, ma la debolezza delle istituzioni rende i suoi membri troppo vulnerabili in caso di mancato intervento della Francia, che guida l’operazione Barkhane in ambito militare. La jihad così avanza, e spesso agisce indisturbata.
Lo Stato Islamico nell’Africa occidentale
Mettere insieme “Nigeria” e “jihad” porta subito a pensare a Boko Haram, organizzazione nata nel 2002 che ha l’obiettivo di instaurare la sharia nel Paese. Dal 2016 da una costola del gruppo è nato lo Stato islamico dell’Africa occidentale, formato da alcuni secessionisti e la cui azione fu benedetta direttamente da Abu Bakr Al Baghdadi, il leader più influente dell’Isis (nonostante Boko Haram si fosse legato allo Stato islamico un anno prima, adottandone anche la bandiera). Al gruppo, la cui sigla è Iswap, è legata l’uccisione del leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, avvenuta a maggio 2021. Sempre da un’altra scissione è nata Ansaru, Al Qaeda a sud del Sahel. Nella zona tra Nigeria, Ciad e Camerun sono tante le milizie che operano in nome della jihad, responsabili di omicidi, violenze di ogni tipo e rapimenti: al 2019, Boko Haram si riteneva responsabile della morte di circa 30 mila persone. Spesso sono presi di mira studenti, rapiti nelle scuole e liberati solo a fronte di ricchi riscatti. Al momento, si ritiene che Iswap possa contare su circa 5 mila uomini, mentre Boko Haram dovrebbe contare su una milizia di 2 mila unità.
Gli jihadisti del Congo e la morte dell’ambasciatore Attanasio
Nell’area in cui il 22 febbraio fu ucciso l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, a est del Paese, si è combattuta per cinque anni la guerra del Kivu, ufficialmente finita nel 2009. La zona però non è stata mai realmente pacificata. Qui opera la provincia dello Stato islamico in Africa centrale, o Iscap, uno dei numerosi gruppi armati che si contendono il controllo di un territorio ricco di risorse naturali. Nel 2019 gli attacchi dell’Iscap erano stati 33, nel 2020 pochi di meno. Sono bersaglio non solo i civili inermi, ma anche le banche e le caserme da cui rubare denaro e munizioni. I primi gruppi islamisti in questa zona erano arrivati già dalla metà degli Anni 90: le Forze democratiche alleate (Adf) furono fondate da congolesi e salafiti ugandesi nel 1995, con l’obiettivo di instaurare uno Stato islamico nel Paese. Con base sui monti del Ruwenzori, il gruppo compie da allora massacri e razzie sul territorio: solo nel 2020 si è reso responsabile della morte di 800 civili. E, nei primi mesi del 2021, i suoi uomini hanno ucciso almeno 100 persone in una serie di attacchi nel Kivu.
Al-Shabaab, i “giovani” eredi di Al Qaeda in Somalia
Come Boko Haram in Nigeria, Al-Shabaab (letteralmente “Il Partito dei Giovani”) è legato a un Paese in particolare: la Somalia. Si stima che il gruppo, costola locale di Al Qaeda, riesca a ricavare dalle proprie attività criminali circa 15 milioni di dollari al mese, aiutato anche dalle azioni dei pirati somali che infestano l’area tra Mar Rosso, Oceano Indiano e Golfo Persico. Ad aprile il gruppo ha assaltato due basi militari a sud della capitale Mogadiscio: le autorità somale hanno parlato di 77 vittime tra i miliziani, Al Shabaab di circa 50 soldati uccisi. A luglio, invece, un’autobomba che aveva come bersaglio un convoglio dell’esercito ha ucciso 10 civili proprio a Mogadiscio. Il gruppo opera anche in Kenya, soprattutto al confine tra i due Stati, e nel 2018 si rese protagonista del rapimento della volontaria italiana Silvia Romano.