La felpa di Macron, la guerra e la morte di mio padre: il racconto della settimana

Sotto il parka mio fratello indossa una felpa mimetica. «Che roba è?», chiedo. «Non ve li fanno leggere i giornali. Primo c’è una guerra in corso, e poi la felpa è il must della settimana. La portava anche Macron all’Eliseo», mi risponde lui. Prima di dirmi che papà non c'era più. Il racconto della settimana.

La felpa di Macron, la guerra e la morte di mio padre: il racconto della settimana

Ogni volta che passa a trovarmi, qui al sanatorio, mio fratello mi porta in dono un libro. Tutti della stessa casa editrice. Copertine opache e colori pastello, nelle varie gamme intermedie. Devo ammettere, che però, a guardarli tutti allineati, uno in fila all’altro, nella mia stanza, donano all’ambiente una certa eleganza. «Sono pazzo per gli Adelphi!», mi ha detto l’ultima volta che ci siamo visti, con la sua voce stridula. Gli occhiali da sole e un foulard ultra-colorato da bandito tirato fin sotto gli occhi, a coprire naso e bocca, al posto della mascherina. Fino a ora mi ha portato: due robe di James Bond, Moby Dick, due romanzi di un tizio francese che mi sono piaciuti molto (di cui uno si intitola Yoga), tre gialli scritti da un belga, un delirio illeggibile di un certo William Burroughs e un racconto di viaggi, con la foto di un fighetto in copertina, dal titolo abbastanza esplicativo, quasi autobiografico lo definirei: Che ci faccio qui?

Nessuna overdose, nessuna auto andata a schiantarsi da qualche parte, nessun volo in moto. Dicono che semplicemente mi si è piegato il cervello

Già, me lo domando anch’io. Cazzo ci faccio qui? L’ho chiesto al fighetto in copertina decine di volte, ma né lui né quello che ci ho trovato scritto dentro sono riusciti a darmi una risposta valida. Quello che so è che ho avuto un incidente e che sono qui perché mi stanno curando. Nessuna overdose, nessuna auto andata a schiantarsi da qualche parte, nessun volo in moto. Dicono che semplicemente mi si è piegato il cervello. Dicono anche che ho i ricordi incasinati, anche se a me, detto sinceramente, non sembra affatto. Di certo qui dentro mi sono reso conto che la vita come dovrebbe essere non è più una questione importante. Se chiudo gli occhi adesso mi vedo al volante della mercedes grigia di mio padre, in Versilia, con di fianco una ragazza castana con i capelli sciolti. Ilaria. Oppure sono a Crans-Montana, su una terrazza assolata  e cosparsa di neve, con la compagna di mio padre, Renata, e indosso un loden, aspettando che il cameriere ci porti da bere. Sono davanti ad un locale a Parigi e scendo incespicando da una limousine utralunga. Sono su un traghetto per l’isola d’Elba e parlo a un cellulare con Yuri, mia cugina Cristina intontita accanto che origlia. Sono in pigiama a casa nostra, a Santa Margherita, e guardo mia madre sorseggiare un Martini. Da una finestra vedo i lampi nel cielo e ho appena finito di mettere le mie iniziali SFG sotto il disegno di un orso polare che ho fatto per lei. Sto tirando calci a un pallone in un enorme prato verde cosparso da mille palline da golf di tutti i colori, a Monticello. Vivo in un palazzo, costruito da mio nonno, in via Lamarmora a Milano. Sono nella camera di un collegio svizzero e sto tirando una riga lunga e sottile di cocaina con Kim. Ho 14 anni. Penso a Lisa, fatta di eroina, con gli occhi vitrei e le labbra gonfie di collagene e spalmate di cera d’api che me lo prende in bocca.

I miei genitori si sono conosciuti durante un’estate a Rapallo di molti anni fa. Mia madre era bellissima e mio padre rimase folgorato la prima volta che la vide. Il giorno dopo le fece recapitare in albergo 100 rose rosse. Si sposarono tre mesi più tardi

Racconto tutto a una dottoressa che mentre parlo prende appunti. Fuori dalla finestra il cielo è grigio e il panorama del lago è così narcolettico che imparo a fare collegamenti basandomi solo sulla paura. «Smettila di guardarmi con fossi uno scemo», dico irritato alla dottoressa che mi osserva, disinvolta, stretta nella gonnellina cortissima, che si intravede sotto il camice, con indosso un paio di scarpe da 1500 euro. «Ho l’impressione che non stiamo facendo progressi», dico. «Siamo tutti in gabbia.
Parlami dei tuoi genitori», dice lei, e poi aggiunge: «Ti hanno mai raccontato come si sono conosciuti?». Una lunga pausa. «Immagino di sì», dico senza guardarla. «I miei genitori si sono conosciuti durante un’estate a Rapallo di molti anni fa. Mia madre era bellissima e mio padre rimase folgorato la prima volta che la vide, seduta un pomeriggio ai tavolini del Caffè Biancaneve in passeggiata, in compagnia di sua sorella. La zia Carla. Papà diede una lauta mancia al cameriere per prendere informazioni sulla ragazza e il giorno dopo le fece recapitare in albergo 100 rose rosse. Si sposarono tre mesi più tardi contro il volere della famiglia tanto che i miei nonni paterni non si presentarono al matrimonio. Poi nacqui io e le cose in qualche modo si aggiustarono. Non ricordo altro». «Ricordi il momento in cui si sono lasciati?». «Sinceramente ricordo solo che fui spedito in collegio, prima a Bergamo, al Collegio San Marco, e poi in Svizzera. Per otto lunghi anni, una specie di galera. Un posto molto simile a questo». Poi comincio a ridacchiare senza riuscire a controllarmi fino a quando uno spasmo di paura mi fa lacrimare gli occhi e contorcere la faccia. Tossisco, mi asciugo gli occhi, tiro su col naso. «Non ho più voglia di parlare con te. E voglio andarmene da qui, subito. Mio padre è molto potente e mi tirerà fuori appena mi darete il permesso di telefonargli». La mia voce risuona stridula e femminea. «Non stai rispettando le regole», dico, con il cuore stretto. «Non ti attieni al copione. Non c’è nessuna regola, Stefano. Di quale copione parli? Non dire sciocchezze».

 

il racconto della settimana: la felpa di macron e la morte di papà
Il lago di Como, nel cerchio rosso Lenno dove si trova la clinica.

 

Di sopra il letto è gelato, la porta è chiusa a chiave. Mi hanno dato dei calmanti ma ancora non riesco a dormire. Comincio a masturbarmi una dozzina di volte pensando a Priscilla ma quando mi rendo conto che non serve a niente smetto. Cerco di coprire le urla che salgono da sotto alzando il volume dell’iPod ma dentro c’è solo Crocodile Rock di Elton John, ovverosia l’unica cassetta che avevo ai tempi del collegio, così inizio a urlare anch’io. Poi faccio sogni terribili: francobolli cosparsi di colla velenosa, le pagine dei libri che mi ha regalato mio fratello sono intrisi di una sostanza chimica che uccide in poche ore, gli abiti di Armani che ho nell’armadio impregnati di veleno. Quando mi sveglio capisco: sei solo qualcuno che aspetta che ti vengano a prendere.

«Stava male da un po’ Ste, ormai non mangiava e non beveva più da giorni».  Mi avvolgo nella coperta che porto in grembo, di colpo la mia testa si trasforma in un proiettore e mi perdo in una sequenza di immagini

Costruita alla fine del XVIII secolo, la villa di Lenno che ospita la clinica si trova sulla punta di un promontorio a picco sul lago di Como, quasi di fronte a Bellagio. La loggia, il luogo deputato alle visite dei parenti e degli amici, allineata con la penisola, consente di ammirare contemporaneamente gli opposti paesaggi della Tremezzina e dell’isola Comacina. Oggi è giorno di visita, quindi sono qui con una tazza di caffè in mano che attendo mio fratello arrivare, probabilmente a bordo del solito gozzo di legno che fa da taxi boat, poiché la clinica si può raggiungere solo via lago. Come fossimo ad Alcatraz. Quando arriva tiene in mano uno dei suoi soliti libri con l’aria di aspettarsi chissà cosa. Indossa un parka costoso. Mi viene incontro. «Ciao fratellone», dice sorridendo. «Cosa vuoi?», chiedo, sorseggiando il mio caffè. «Sono venuto a trovarti, e ti ho portato questo libro. Serge. È appena uscito, è di una scrittrice parigina, si chiama Yasmina Reza, e parla del rapporto tra fratelli. Ho pensato potesse essere carino che lo leggessi. So che ultimamente noi due non abbiamo parlato molto», attacca in tono di scusa, ma senza l’accento che mi aspettavo. «Non ho niente da dirti», mormoro. «E lo capisco. Non è un momento facile per nessuno». «Non ho voglia di leggere nessun libro, voglio solo andarmene da qui. Ho i miei problemi, non capisci proprio un bel niente», dico, e poi, con uno sbadiglio. «Che ore sono?». «Saranno le 10 del mattino», dice, controllando uno dei due orologi che porta ai polsi. Noto che sotto il parka indossa una felpa mimetica in tessuto tecnico con in alto a destra ben visibile il logo della Nike. «Che roba è?», chiedo indicando la tuta di felpa. «E poi perché mimetica?». «Non ve li fanno leggere i giornali qui in Volò sul nido del cuculo? Primo c’è una guerra in corso, e poi la felpa è il must della settimana. Anche Macron l’altro giorno era in felpa e cappuccio, all’Eliseo. La foto era su tutti i quotidiani», dice. «Non ho visto, quale guerra? E comunque non mi interessa. Papà sa che sei qui?».  Distoglie lo sguardo con aria apprensiva. «Brother», dice mio fratello. «Mi sono chiesto a lungo se venire a dirtelo di persona o meno». Segue un breve silenzio. «Ma alla fine ho deciso che era meglio te lo dicessi io piuttosto che lo venissi a sapere da Priscilla. Papà è morto». «Ehi, ehi, aspetta», dico. «No, ti prego, non…». «Stava male da un po’ Ste, ormai non mangiava e non beveva più da giorni». «Perché?», imploro, spaventato. « Perché?». Mi avvolgo nella coperta che porto in grembo, di colpo la mia testa si trasforma in un proiettore e mi perdo in una sequenza di immagini.

il racconto della settimana: la felpa di macron e la morte di papà
Emmanuel Macron all’Eliseo (da Instagram).

Ci siamo io e mio padre, a Parigi, durante il periodo della sua latitanza, che attraversiamo a piedi Rue de Rivoli. Un’inquadratura di mio padre su un volo Air France che legge una copia di Le Monde. Mio padre che cammina lungo Place des Vosges, poi entra in un ristorante che si chiama Benoît. All’improvviso una scena in cui ci sono anch’io, seduto in un caffè in cui non ricordo di essere stato. Sono solo, abbronzato, con una polo Lacoste bianca, e cerco un cameriere. Poi ancora mio padre. Con mia madre sulla terrazza di un hotel a Bangkok e la chiama puttana. In costume da bagno che esce furtivo da un bungalow in un resort a Nassau. A bordo di una Mercedes bianca e malconcia a Tripoli. E ancora, al Polo Lounge del Beverly Hills Hotel, con in mano una mia foto, credo una pubblicità, ed io sono così elegante da togliere il fiato: blazer di lana nera, dolcevita di cachemire nero, capelli perfetti, stivaletti di Gucci. Mio fratello mi prende la mano, comincio a piangere, mi dimeno, urlo, gemo stupidamente, mi butto per terra e poi mi sdraio, immobile, le mani sulla faccia.