Qatar 2022, Doha si difende dalle accuse di violazione dei diritti umani
Omofobia, discriminazioni, sfruttamento dei lavoratori gettano un'ombra sul Qatar in vista dei Mondiali di calcio. Accuse smentite dal responsabile della manifestazione Hassan Al-Thawadi. Che, in un'intervista alla BBC, ha ribadito i progressi fatti dal Paese in termini di sicurezza e inclusività.
La scelta del Qatar come Paese ospitante dei Mondiali di calcio che si disputeranno dal 21 novembre al 18 dicembre 2022 continua a essere oggetto di polemica. Numerosi giocatori e i dirigenti hanno pesantemente criticato Doha per le ripetute violazioni dei diritti umani denunciate dalle ong e dalle non profit internazionali. Giudizi che, tuttavia, Hassan Al-Thawadi, segretario generale del comitato organizzativo della competizione sportiva, ha rimandato al mittente, smentendoli categoricamente e ribadendo l’idoneità del Qatar a ospitare la manifestazione.
Discriminazioni sessuali e finti tentativi di inclusione
«Penso che queste dichiarazioni nascano dalla disinformazione», ha spiegato Al-Thawadi in un’intervista a Bbc Sport, «meritiamo quest’occasione perché amiamo il calcio e non dovremmo vergognarci di aver puntato così in alto. È legittimo avere l’ambizione di voler mostrare al mondo chi siamo e cambiare la percezione che le persone hanno di noi». La realtà dei fatti, tuttavia, mostra nero su bianco tutta un’altra storia. In Qatar, infatti, l’omosessualità continua a rimanere illegale, con leggi che criminalizzano la comunità LGBTIQ+, discriminata tanto nella teoria quanto nella pratica al pari delle donne. Una situazione che collide con gli slogan di inclusività di cui si fa portatore lo sport e che ha spinto i diversi collettivi di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali a reclamare un confronto diretto con la Fifa per ribadire la propria preoccupazione e sottolineare l’inutilità delle rassicurazioni dei vertici.

Non sono rimasti soli a combattere questa battaglia: figure come Gareth Southgate e Harry Kane, allenatore e capitano dell’Inghilterra, hanno sottolineato pubblicamente «quanto vergognoso sarebbe se alcuni tifosi non potessero assistere alle partite per questioni di sicurezza e quanto sia necessario accendere i riflettori su tutte le problematiche del Mondiale in Qatar». Per il segretario, invece, il problema semplicemente non esiste: «Abbiamo sempre accolto tutti e fatto il possibile per farli sentire al sicuro», ha dichiarato, «siamo un Paese conservatore, non siamo così avvezzi alle dimostrazioni pubbliche di affetto ma l’ospitalità è una priorità a cui non rinunciamo. Ecco perché i tifosi gay saranno i benvenuti».

Il nodo delle morti sul lavoro
A mettere ulteriormente in discussione la già dubbia reputazione del Qatar si sono aggiunte anche numerose segnalazioni di Amnesty International relative allo sfruttamento riservato ai lavoratori stranieri impegnati nella realizzazione di impianti e infrastrutture tra cui sette nuovi stadi, un aeroporto, strade, hotel e addirittura una città destinata a ospitare la finalissima. Secondo un’inchiesta del Guardian, infatti, dal 2010, anno in cui è stata ufficialmente accettata la candidatura del Paese, sarebbero morti più di 6500 operai provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka. Una media di 12 decessi a settimana e un bilancio che, a conti fatti, potrebbe essere addirittura più alto perché, nel totale, non sono incluse le morti dei migranti provenienti da Filippine e Kenya e quelle registrate negli ultimi mesi del 2020.
Since Qatar won the World Cup bid in 2010, thousands of migrant workers have died of unexplained causes, including those building the World Cup infrastructure.
FIFA World Cup 2022 is built on human rights abuses. pic.twitter.com/EggckxQQVn
— Human Rights Watch (@hrw) March 28, 2022
Il Qatar, tra abusi recidivi e passi in avanti inconsistenti
Non sono mancate le accuse di ‘sportwashing’, tra verità insabbiate e tentativi di proporre un’immagine di sé ben lontana dalla verità semplicemente per motivi di profitto. «Non c’è nulla di più falso», ha precisato Al-Thawadi, «negli ultimi 12 anni, i progressi ci sono stati e sono tangibili. Ovviamente, c’è ancora tanto da fare come nel resto del mondo, d’altronde. Non credo che, al momento, nessuna nazione possa vantare un’organizzazione perfetta. Noi ammettiamo di avere ancora una lunga strada da percorrere ma pretendiamo che vengano riconosciuti i sacrifici fatti». In effetti, formalmente i passi in avanti ci sono stati ma a mancare è stato il riscontro pratico: nonostante le denunce di Amnesty e le leggi a tutela dei lavoratori da, gli abusi non sono scomparsi, anzi.

«Gli operai continuano a essere maltrattati e i datori rimangono impuniti», ha evidenziato la FIFPro, la federazione dei calciatori professionisti, «chi viene sfruttato teme le conseguenze di una denuncia e, per questo, subisce in silenzio turni di lavoro massacranti e stipendi da fame. Questo dimostra come tutti gli sforzi decantati, in realtà, siano serviti davvero a poco». Una prospettiva che Al-Thawadi ha prontamente ribaltato: «Qualunque cosa si faccia, nulla risarcirà la perdita di una vita umana», ha concluso, «in compenso, facciamo del nostro meglio per stare accanto alle famiglie, indagare su ogni morte per individuarne la causa e garantire che tragedie del genere non si verifichino più».