Adesso che i riflettori si sono spenti, che l’indignazione a comando sui diritti scemerà, i problemi del Qatar rischiano di finire come la polvere sotto il tappeto. Peccato che qui si parli di vite umane, di storie, di lavoratori. Che non solo non avranno giustizia, né un miglioramento delle loro condizioni, ma rischiano di dover subire altri soprusi anche dopo che è calato il sipario sulla Coppa del Mondo sollevata da Leo Messi.
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Dopo tre mesi di lavoro, nemmeno un centesimo pagato
Il Guardian ha raccontato le vicende umane di diversi migranti, a partire da Isaac ed Emmanuel, nomi di fantasia usati per proteggere la loro vera identità: sono africani e avrebbero guardato volentieri la finale del Mondiale vinta dall’Argentina sulla Francia, se solo avessero potuto. Ma c’era il lavoro prima di tutto, in uno dei ricchissimi centri commerciali del Qatar, dove questi due ghanesi fanno le pulizie. Sono qui da tre mesi e non hanno ancora visto un centesimo. «Ci hanno detto che avrebbero pagato alla fine di questo mese, ma lo avevano promesso anche le volte precedenti», dice Isaac. «Non ho soldi. Non sono felice. Le persone prima ti dicono di venire qui, dove con il duro lavoro potrai ottenere tutto quello che vuoi. Ma poi non va proprio così».

«Nessuno sarebbe qui se avesse altra scelta, e il Qatar lo sa»
L’andirivieni quotidiano dei lavoratori migranti di Doha è uno spettacolo a cui pochi visitatori hanno assistito nell’ultimo mese, anche perché alcune organizzazioni sono state incentivate a tenere il loro personale a casa durante il torneo, nel tentativo di non peggiorare la situazione del traffico. E nascondere un po’ di polvere sotto il tappeto, appunto. Uomini che ora verranno di nuovo trasferiti, passando da un confinamento – quello dove hanno gli alloggi – all’altro, dove si spaccano la schiena. Qualcuno di loro parla esplicitamente di «una grande prigione dove puoi solo lavorare», ammettendo che «nessuno sarebbe qui se avesse altra scelta, e il Qatar lo sa. Quello che stiamo vedendo qui è la schiavitù moderna».

Dipendenti traumatizzati che hanno chiesto di tornare nei loro Paesi
Moses, altro nome inventato, lavora nella sicurezza in un altro centro commerciale. Ha visto cosa succede quando la situazione si fa insostenibile. Un suo amico è stato portato al limite della sopportazione per un colpa di un mix quasi letale tra orario extra-large di lavoro, paga bassa, condizioni di vita spesso antigeniche e tanti mesi lontano dalla famiglia. «Era così traumatizzato che l’unica opzione è stata andare dai capi e insistere perché gli prenotassero un volo di sola andata per casa». Poi però la giostra va avanti. Il Lusail Stadium, dove Messi e Mbappé hanno dato spettacolo nell’atto conclusivo della manifestazione, è a una trentina di chilometri di distanza, ma qui è davvero un universo a parte.

Turni fino a 12-14 ore, con tre ore lasciate per dormire
Moses di solito lavorava 12 ore al giorno prima dell’inizio del torneo, che diventano 14 contando anche il viaggio, senza alcun pagamento extra. Racconta di un evento di quest’anno, gestito da un’importante organizzazione sportiva del Qatar, che ha richiesto il lavoro del personale di sicurezza fino alla partenza degli ultimi ospiti. Significava finire ogni giorno verso le 2 del mattino e tornare al lavoro sull’autobus delle 5. «A chi si lamentava hanno stracciato i contratti», dice. «Non puoi fare niente contro i nostri capi qui. Puoi solo andare a letto quel poco che puoi, alzarti di nuovo e lavorare pure il giorno dopo».
Stanze minuscole con 5-6 persone: allarme su malattie e Covid
Durante Qatar 2022, i giorni di lavoro di Moses sono diventati di otto ore. L’impatto sul suo stile di vita e sul suo benessere mentale, dice, è stato evidente. «Vedremo se rimarrà così o meno. Sono sicuro che le cose cambieranno, e non in senso positivo. Mi aspetto che tornino come prima. Un periodo di 29 giorni non può rivoluzionare ciò che è accaduto negli ultimi cinque o 10 anni». Del resto l’oblio è la cosa peggiore che possa capitare a persone come Geoffrey, un ghanese che vive assieme a otto connazionali in un appartamento con un minuscolo spazio comune e tre camere da letto singole. Ognuna contiene un letto a castello a tre livelli: Geoffrey sa di stanze altrettanto piccole che ospitano fino a cinque o sei uomini. Le malattie ovviamente proliferano in queste condizioni, e nel 2020 Amnesty International aveva lanciato anche l’allarme sul pericolo causato dal contagio da Covid-19.

Per molti c’è solo il salario minimo di 1.000 riyal: 225 dollari
«È importante ricordarsi di noi», sottolinea. «Quando le persone verranno a sapere cosa stiamo passando qui, forse organismi come l’Organizzazione mondiale della sanità o le Nazioni unite potranno aiutarci. Ma la cosa più importante per me riguarda gli stipendi: è molto dura». Ogni mese Geoffrey, che fa anche le pulizie in un centro commerciale, guadagna il salario minimo di 1.000 riyal (225 dollari). È appena sufficiente per sopravvivere, anche quando si aggiungono un sussidio extra per l’alloggio e una piccola somma per il cibo, visto che la maggior parte dei lavoratori migranti è qui per mantenere la famiglia, rimasta in patria. Il calcio? Scorre via quasi invisibile, con i lavoratori ridotti a guardare le partite della Coppa del Mondo su qualsiasi telefono che potesse trasmetterle in streaming.
Chi denuncia gli abusi viene identificato e licenziato
Il Qatar ha introdotto la soglia salariale lo scorso anno, ma diversi lavoratori che hanno parlato con il Guardian spiegano che non sempre è stata rispettata e che i dipendenti di solito sono poco attenti alle riforme introdotte dal governo. Certo, i migranti possono denunciare abusi come le mancate buste paga al ministero del lavoro, in teoria in forma anonima, ma Isaac sostiene di essere a conoscenza di casi in cui un dipendente è stato pagato dopo l’intervento del governo solo per essere identificato dall’azienda e licenziato. Una delle sanzioni più comuni è l’abitudine di alcune aziende di sottrarre a un lavoratore due giorni di stipendio per aver saltato una giornata, il che non è certo raro a causa della stanchezza fisica o mentale.

Razzismo nei confronti dei lavoratori africani
Un altro tema frequente è il presunto razzismo mostrato nei confronti dei lavoratori africani. Che vengono ghettizzati dagli asiatici. Kwame, che vive con Geoffrey ed è assistente falegname per un’impresa edile, descrive la sensazione di essere trattato come se facesse parte di una classe inferiore. »Cosa ci danno i qatarini?», si chiede. «Niente. Ci trattano come se non fossimo umani, come se fossimo pezzi di merda. “Kachara” (spazzatura, ndr), ci gridano contro». La sensazione insomma è che, mentre il Qatar si è vantato in lungo e in largo del successo del suo Mondiale, ha messo in scena uno spettacolo destinato a chiunque tranne che a quei poveracci a basso reddito che hanno rischiato il loro benessere psico-fisico per far funzionare tutto senza intoppi. «Questa Coppa del Mondo non era per me», dice Geoffrey. «Noi siamo i braccianti. Ha fatto la storia per loro, potranno sempre vantarsi di come l’hanno realizzata. Questa è la vita».