Qatar 2022, l’Occidente spaccato e il silenzio sui diritti
La protesta contro lo stato delle libertà civili in Qatar è stata molto fiacca durante il Mondiale. A partire dall'iniziativa sulla fascia arcobaleno subito smorzata dalla minaccia di sanzioni. Francia, Spagna e Portogallo zitti, Usa e Canada allineati con Doha. Così Europa e America non hanno cavalcato il ruolo sociale e politico del calcio.
L’Occidente in difesa dei diritti violati da un Paese pre-moderno. Si è articolata intorno a questo motivo conduttore la rappresentazione principale del Mondiale di calcio 2022 in Qatar. I primi nella storia in cui l’elemento sportivo è passato in secondo piano, certamente i più politici di sempre. Il dibattito ha prodotto una spaccatura trasversale. Ha attraversato l’opinione pubblica globale, allertata già da anni dopo che i primi reportage del quotidiano inglese Guardian hanno riportato statistiche impressionanti, su circa 6.500 morti fra i lavoratori stranieri impegnati nell’edificazione degli stadi e di altre opere legate all’evento. E ha raggiunto il mondo del calcio, che a sua volta si è diviso fra la parte dei soggetti portatori di un’idea forte a proposito del ruolo sociale e politico del calcio e quanti invece si inchinano ai principi della realpolitik e invitano calciatori e dirigenti federali a pensare soltanto a giocare.
Dal presidente della Fifa Infantino solo elogi agli organizzatori
La spaccatura interna al mondo del calcio ha raggiunto i massimi livelli concentrandosi intorno alla figura di Gianni Infantino, l’avvocato italo-svizzero che da febbraio 2016 è a capo della Fifa. Infantino è stato e continua a essere in questo giorni il più fervente sostenitore del Mondiale qatariota. Sul sito della Fifa è tutto un succedersi di suoi interventi encomiastici a proposito della qualità di questo Mondiale, descritto come il più spettacolare e il meglio organizzato di sempre. L’ultimo in ordine di tempo è datato 8 dicembre e si sofferma sul fatto che questa edizione avrebbe «unito il mondo». Ma si può star certi che, fra il momento in cui questo articolo viene scritto e quello in cui verrà pubblicato, il capo del calcio mondiale avrà piazzato un’altra delle sue esternazioni.

La residenza spostata in Qatar e quell’inchiesta sulla corruzione
C’è da capire se Infantino parli ancora come presidente della Fifa o come asylanten di lusso dell’emirato. Da mesi infatti il capo del calcio mondiale ha spostato in Qatar la residenza per sé e la famiglia. Così facendo si è lasciato alle spalle la Svizzera e l’inchiesta che la magistratura elvetica conduce sul suo conto a proposito degli incontri riservati tenuti fra il 2016 e il 2017 con l’allora procuratore generale nazionale Michael Lauber, che per inciso era anche titolare (in condivisione con l’allora procuratrice generale degli Usa, Loretta Lynch) dell’inchiesta giudiziaria sulla corruzione Fifa che portò al blitz zurighese di fine maggio 2015. Quanto tutto ciò abbia inciso sulla scelta di Infantino di spostare la residenza in Qatar non è dato sapere. La cosa sicura è che il capo del calcio mondiale, nella famosa e infelicissima conferenza stampa che ha preceduto l’inaugurazione della manifestazione, da europeo e occidentale si è scagliato contro l’Europa e l’Occidente accusandoli di arroganza e doppia morale per la loro pretesa di valutare con senso di superiorità gli standard di diritti e libertà civili vigenti presso le culture altre.
La versione degli arabi e le accuse di razzismo
Le parole di Infantino ricalcano i toni da scontro fra culture che durante queste settimane sono stati elevati dalle colonne dei quotidiani qatarioti, nonché parzialmente ripresi dai giornali di altri Paesi dell’arabo-sfera. Talvolta i toni sono stati anche aggressivi, come nel caso dell’editoriale firmato da Khaled Al Khater per la testata Al-Sharq. Per capire è bene riportarne il primo, lungo stralcio: «Ciò a cui il Qatar è esposto non sono più critiche, ma piuttosto attacchi tendenziosi e sistematici, ed è diventato sempre più chiaro che è tutto infondato, e dietro ci sono odiosi motivi razzisti e altri obiettivi. L’abbondanza degli attacchi non dovrebbe disturbarci dato che si avvicina il torneo (che) smaschererà la falsità di queste campagne fuorvianti e dei loro stereotipi, e invertirà i risultati desiderati e attirerà di più verso la nostra cultura e valori. [La campagna denigratoria] non mira solo a offendere il Qatar, ma anche a tutti gli arabi e i musulmani come nazione, come cultura e come civiltà. (…)
Sembra che i popoli arabi e islamici siano i più presi di mira, perché sono i più conservatori, e sebbene ora siano in una fase di debolezza, costituiscono ancora un blocco solido, e un altro modello civile che compete con il modello occidentale, privo di valori, che rifiuta l’altro cercando di abolirlo, con arroganza e razzismo. [E si fonda] su un senso della supremazia della razza bianca europea su tutta la creazione di Dio. Allora perché non abbiamo sentito qualcosa del genere da asiatici, africani o latinoamericani, per esempio? Alcune di queste affermazioni sono state recentemente espresse dal più alto funzionario della politica estera europea, dicendo che l’Europa è un giardino civilizzato e la maggior parte del resto del mondo è giungla, esprimendo la mentalità occidentale e dimenticando che il giardino civilizzato europeo era costruito saccheggiando la ricchezza di quella giungla e schiavizzando la sua gente».

Occidente, blocco monolitico non pervenuto
Da queste parole emerge un atteggiamento non soltanto difensivo, ma piuttosto traspare un malanimo radicato e nemmeno tanto latente che le campagne per la tutela dei diritti alimentate intorno al Mondiale hanno rinfocolato. E tuttavia resta un interrogativo di fondo, che fin qui nemmeno sull’altro versante è stato sollevato: ma di quale Occidente si sta parlando? Il fiammeggiante editoriale pubblicato da Al-Sharq non specifica e lascia intendere che si faccia riferimento a un blocco monolitico, di cui nemmeno si indica l’estensione. E il riferimento alla mentalità e alla visione del mondo, calato nell’invettiva contro i crimini commessi nella storia remota e recente, è piuttosto standardizzato. In tutto uguale e contrario all’Orientalismo tratteggiato nell’ormai classico lavoro di Edward W. Said. Praticamente siamo in presenza di un Occidentalismo, una versione stereotipata di cosa sia Occidente. Qualcosa che fotografa molto parzialmente la realtà delle cose. E proprio il Mondiale disputati in Qatar hanno forse detto verità definitive sul tema.

La fascia da capitano “One Love” subito ridimensionata
Molto si è detto e scritto a proposito delle iniziative che le rappresentative nazionali intendevano adottare per manifestare il loro dissenso riguardo allo stato dei diritti e delle libertà civili in Qatar. Tutte le intenzioni sono state stoppate dalla Fifa, sia con raccomandazioni tramite le quali si sollecitava calciatori e allenatori a occuparsi soltanto di calcio lasciando perdere ogni altro tema, sia con esplicite minacce di ricorrere alle sanzioni disciplinari nel caso che i capitani indossassero la fascia “One Love”, che conteneva un messaggio di protesta e invito alla tolleranza. Infine nulla di tutto ciò è stato adottato. E anzi, basta scorrere la lista delle federazioni nazionali che avrebbero voluto applicare l’iniziativa per capire quanto ridotta fosse l’adesione alla campagna. Erano soltanto sette: Belgio, Danimarca, Galles, Germania, Inghilterra, Olanda e Svizzera. Tutte qui. E le altre? Dileguate, per i motivi più svariati. A partire dalla Francia, che col Qatar (e specie nel calcio) ha rapporti un po’ troppo stretti. Per continuare con Portogallo e Spagna, che puntano a ospitare il Mondiale 2030 e dunque non hanno nessuna intenzione di alienarsi i voti del mondo arabo.

Anche da Canada e Stati Uniti solo silenzi e vicinanza agli arabi
Nessun cenno dalle federazioni dell’Est Europa presenti alla fase finale con le loro rappresentative, ma nemmeno da quelle dell’America latina, Messico compreso. E il Nord America? Dal Canada è giunto un silenzio inscalfibile. E quanto agli Usa, si è andati anche oltre. Nei giorni del Mondiale il segretario di stato dell’amministrazione Biden, Anthony Blinken si è recato nell’emirato e qui ha firmato, assieme al ministro degli esteri qatariota Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, una lettera d’intenti sull’eredità del Mondiale. Si è trattato di una cerimonia che precede idealmente il passaggio di consegne fra il Paese organizzatore dell’attuale edizione del Mondiale e uno dei Paesi che organizzeranno (unitamente a Canada e Messico) quella del 2026. Ma al di là degli aspetti formali e cerimoniali, rimane il messaggio forte sul piano politico: la potenza occidentale per eccellenza non va per il sottile e lascia la questione dei diritti fuori dal Mondiale di calcio. A difenderla resta un Occidente molto minimal, poche zolle d’Europa che alla minima minaccia di ammonizione per i capitani delle rappresentative nazionali hanno deciso di battere in ritirata. Questa è la vera “legacy” del Mondiale qatariota. E che piaccia o no, ha un effetto chiarificatore.