Sul confine occidentale dell‘Ucraina c’è l’anello debole del fronte internazionale antirusso: la Moldavia. E c’è anche la testa di ponte di Mosca, la Transnistria, piccola repubblica non riconosciuta, ma legata alla Russia fin dai tempi della guerra lampo nell’allora repubblica ex sovietica. Un Paese diviso in due, l’odierna Repubblica di Moldavia, con capitale Chisinau che dista un’ottantina di km da Tiraspol, il capoluogo separatista a sua volta a una manciata di km dal confine ucraino e un centinaio da Odessa, il grande porto sul Mar Nero già finito sotto gli attacchi missilistici russi. Una delle opzioni militari del Cremlino è quella di allungare il corridoio già sotto il proprio controllo dal Donbass alla Crimea proprio fino alla Transnistria e alla Moldavia, operazione non facile e di breve attuazione soprattutto per l’ostacolo di Odessa, città di un milione di abitanti la cui conquista sarebbe problematica.

Il governo filo occidentale di Chisinau e l’opposizione filo russa
La Moldavia costituisce il lato debole poiché non appartiene né all’Unione europea né alla Nato. Esattamente come l’Ucraina, negli ultimi decenni è stata al centro del duello tra Russia e Occidente, con presidenti e governi che si sono orientati o verso Mosca o verso Bruxelles e Washington. La presidente attuale Maia Sandu, eletta alla fine del 2020, e il suo governo a Chisinau guidato da Natalia Gavrilita, entrambe con un passato a Washington alla Banca mondiale, sono filoccidentali e all’inizio della guerra hanno chiesto la procedura accelerata per entrare nella Ue. I problemi politici però interni sono molti, a partire dalla frazione filorussa che rimane comunque consistente. In parlamento l’opposizione è rappresentata soprattutto dai Socialisti di Igor Dodon, ex presidente fedele a Mosca (2016-2020), e dai comunisti di Vladimir Voronin, anche lui alla guida della repubblica moldava negli Anni 2000 (2001-2009). Filorussa è anche Irina Vlah, la governatrice della Gagauzia, regione autonoma dove la maggioranza dei circa 150 mila abitanti appartiene all’etnia turcofona. La piccola Moldavia, poco più di 2 milioni e mezzo di abitanti, è insomma per sua natura una polveriera, se si conta anche la forte spinta verso la Romania, politica ed etnica. La guerra tra il 1990 e il 1992 si concluse allora con poche centinaia di morti, la lacerazione del Paese con il congelamento del conflitto a ovest del fiume Dnestr e la creazione della Repubblica che oggi il Cremlino usa, per ora, solo nella guerra di propaganda.

La Transnistria e la narrazione russa sulle terre russofone
In Transnistria, al contrario della casa madre dove chi governa è europeista e filoamericano, la questione dell’opposizione non si pone nemmeno, visto che a Tiraspol tutto è sotto controllo della leadership legata al Cremlino guidata dal presidente Vadim Krasnoselsky. Qui sono presenti anche truppe russe, poco più di 2 mila uomini di cui 400 attivi come forza di peacekeeping. Dal punto di vista operativo per la guerra in corso in Ucraina sono di scarsa rilevanza, ma servono comunque per agitare lo spauracchio di un ricongiungimento sulla direttrice Donbass-Odessa-Tiraspol. La narrazione del Cremlino verso la Moldavia è la stessa che si è vista in Georgia nel 2008 e nel Donbass nel 2014 ed è quella della difesa dei russi etnici diventati minoranze invise e discriminate nelle ex repubbliche sovietiche, alla quale ovviamente si aggiungevano allora le situazioni contingenti (in Georgia l’attacco ordinato dal presidente Mikhail Saakashvili per riprendersi Ossezia del sud ed Abcasia; nel Donbass l’operazione antiterrorismo, Ato, iniziata dal governo di Kyiv per riportare sotto controllo le repubbliche di Donetsk e Lugansk). Se a Chisinau la situazione sembra oggi relativamente tranquilla, anche se Sandu ha già lanciato l’allarme per un eventuale allargamento del conflitto, gli ‘incidenti’ degli ultimi giorni a Tiraspol e dintorni negli ultimi giorni, con granate lanciate contro edifici governativi – il 25 aprile si sono registrate esplosioni nell’edificio che ospita il ministero per la Sicurezza statale – e obiettivi sensibili come il centro di trasmissione della radio russa e un’unità militare – sono il segnale di un’escalation che non si sa ancora dove andrà a finire.