In Mitologie Italiane – Idee che hanno deviato la storia (Luiss University Press), Riccardo Pugnalin* e Antonio Pilati** analizzano alcuni dei miti dell’Italia unita che ancora oggi continuano a esercitare la loro influenza sull’opinione pubblica. Il primo, e il più radicato, è la convinzione che il nostro Paese, forte di un secolare primato culturale, esprima ancora una missione di civiltà di portata universale. Il secondo è quello secondo cui l’unità economico-politica europea aumenterebbe le possibilità di sviluppo dell’Italia, rafforzando il suo primato internazionale e assicurando la tenuta sociale. In realtà, secondo i due autori, si tratta di leggende create ad hoc e in modo tutt’altro che disinteressato. Tag43 vi propone la prefazione al saggio a cura di Giovanni Orsina.

Prefazione
di Giovanni Orsina
Parafrasando Georges Clemenceau (“La guerre! C’est une chose trop grave pour la confier à des militaires”), potremmo dire che la storia è troppo importante perché ne scrivano (solo) gli storici. Ecco dunque un libro di storia che non è stato scritto da due storici di professione, ma da due osservatori colti e curiosi, partecipi e appassionati della vicenda italiana degli ultimi decenni. Che avanzano una proposta interpretativa ambiziosa: cercare nelle mitologie una chiave di lettura della storia d’Italia, dall’unificazione fino ai nostri giorni.
Secondo Pilati e Pugnalin, uno dei maggiori, anzi forse il maggiore fra i problemi dell’Italia unita, è consistito, in buona sostanza, nella mancanza di equilibrio nel pensarsi. Le due mitologie che gli autori ritrovano al fondo della vicenda italiana – quella del primato nazionale fino al 1943, quella europeista a partire dal 1992 – segnalano due eccessi opposti: l’esagerazione di sé la prima, la negazione di sé la seconda. In entrambi i casi emerge con chiarezza la patologia di un Paese che in fondo non si ama, vorrebbe essere diverso da quello che è, cerca costantemente e ansiosamente il riconoscimento della altre grandi nazioni occidentali. Emerge insomma l’assenza di un’identità solida, di una percezione realistica e ragionevolmente pacificata di quel che si è e di quale sia la propria collocazione nel mondo.
Nelle pagine che seguono, la parabola dell’Italia monarchica, dal 1861 al 1943, è letta dunque all’insegna della mitologia del primato nazionale, ossia del montare di un nazionalismo culturale sempre più robusto e pervasivo. Sarei forse un po’ più clemente di Pilati e Pugnalin, anche se in fondo concordo con la loro interpretazione. Che l’escalation nazionalista ci sia stata – ossia che l’Italia liberale sia degenerata in quella fascista e quella fascista, a sua volta, si sia venuta facendo con gli anni sempre più ideologica e aggressiva – è un innegabile fatto della storia. Forse poteva andare diversamente, però: nel bagaglio ideologico dell’Italia liberale non c’era solo il primato nazionale, ma anche tanta altra mercanzia meno pericolosa, non ultima la moderazione liberale. Quell’Italia andò male anche perché si mise male assai il mondo che la circondava, allora: non tutto il veleno veniva da dentro. Rispetto agli autori di questo volume, poi, che guardano alla storia d’Italia da un punto di vista “meneghino”, sarei anche un po’ più clemente con la povera Roma, molto più vittima – mi pare – che carnefice. Ma su questo, da romano, sono di parte.
La mitologia del primato nazionale, a ogni modo, è definitivamente e irreversibilmente collassata con l’armistizio dell’8 settembre 1943, aprendo un vuoto al centro della percezione che il Paese aveva di se stesso. Alcide De Gasperi approfittò di quel vuoto per integrare la politica e l’economia italiane nelle comunità atlantica ed europea, ponendo le basi per decenni di sviluppo economico, benessere, pace e cooperazione internazionale. Pilati e Pugnalin – e come dare loro torto? – celebrano la stagione degasperiana come la migliore della nostra storia, sottolineando la scelta dello statista di Pieve Tesino di non andar inseguendo mitologie per concentrarsi piuttosto su un’ azione politica concreta e lungimirante.
Anche in questo i due autori tradiscono in fondo la propria “milanesità”, la propensione a privilegiare un’azione pubblica che non pretenda di modificare in profondità la società civile ma ne accompagni piuttosto lo sviluppo naturale. Così come la tradiscono là dove identificano nella stagione del centro-sinistra una cesura negativa: il momento nel quale la politica cerca di riprendere il controllo dei processi economici e sociali, ma senza averne la forza ed essendo attraversata da profonde divisioni interne, e finendo quindi per rompere più di quanto aggiustava. E anche là dove vedono nella stagione craxiana un ritorno all’intento pragmatico di valorizzare le energie del Paese, non di partire per chissà quale tangente ideologica. Centrale, in questa prospettiva, l’aneddoto secondo il quale, in una pausa di un suo incontro con Berlinguer, un Craxi piuttosto stupito avrebbe chiesto a un amico del segretario del Pci: «Ma questo qui è mai stato a Milano?».
Ragionando della storia d’Italia dal 1861 al 1992, Pilati e Pugnalin ripercorrono, con la loro prospettiva originale, un terreno che è stato molto studiato dalla storiografia. Nelle pagine in cui si soffermano sul mito europeistico che ha segnato l’Italia degli ultimi trent’anni, invece, aprono una pista che non è certo del tutto ignota, ma che dovrà essere ancora molto esplorata. Fra il 1947 e il 1989 l’Italia può fare a meno di mitologie perché il problema della sua identità e della sua collocazione nel mondo, in fondo, lo risolve la Guerra fredda. Caduto il Muro, dissoltasi l’Unione Sovietica, il Paese si trova messo di fronte alla dura necessità di fare da solo. E non può certo tornare al nazionalismo di cinquant’anni prima, colato a picco per sempre con la catastrofe bellica. Ecco allora il tentativo di trovare nell’integrazione europea – che nel frattempo ha fatto un salto di qualità con Maastricht – un nuovo ancoraggio identitario. È un tentativo destinato alla sconfitta, però, come ben sottolineano gli autori di questo libro: l’Unione Europea resta una creatura intergovernativa, un tavolo negoziale al quale bisogna accostarsi avendo le idee chiare sui propri interessi, un luogo dal quale non si deriva un’identità, ma al quale se ne deve portare una robusta per poi farla interagire con le altre.
Antonio Pilati è scomparso il 16 agosto 2022. L’ultima volta che lo avevo visto era stato il 9 febbraio di quell’anno, in un pranzo con Riccardo Pugnalin nel quale avevamo parlato di questo libro. Avevo conosciuto Antonio alla fine degli Anni 90, nel mondo che ruotava intorno al bimestrale Ideazione. Mi avevano colpito, allora, alcune cose che aveva scritto sulle televisioni private e le trasformazioni sociali e culturali del tardo Novecento. Me ne rendo conto soltanto adesso, ma quegli scritti – che hanno avuto un’influenza profonda sulle mie successive analisi del berlusconismo – mi colpivano proprio perché adottavano una prospettiva “milanese” che mi era estranea. La stessa prospettiva che avrei ritrovato più di recente in tante conversazioni con Riccardo Pugnalin e che segna queste pagine. Con Antonio, negli anni, ci siamo poi visti, scritti e parlati spesso, anche grazie alla Fondazione Magna Carta di Gaetano Quagliariello. Era un uomo colto, acuto, capace di ragionare largo, sempre disposto al dialo- go, simpatico. Una rara mente libera – rarissima nell’Italia delle mitologie. Sono molto contento di aver potuto scri- vere questa prefazione al libro intelligente e stimolante che ha scritto insieme a Riccardo. Mi dispiace molto che non possa leggerla.
*Antonio Pilati è saggista, già componente dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni e del consiglio d’amministrazione della Rai. Tra le sue opere, La civiltà degli artefici (2021), La catastrofe delle élite. Potere digitale e crisi della politica in Occidente (2019), Rivoluzione digitale e disordine politico (2016), Europa. Sovranità dimezzata (2013).
** Riccardo Pugnalin ricopre da molti anni ruoli di direzione nelle aree del public affairs e della comunicazione in aziende private e multinazionali. Componente dell’advisory board della Luiss school of government. È esperto di storia dei movimenti e dei partiti politici.