13 anni e 2 mesi. La condanna inflitta a Mimmo Lucano, l’ex sindaco che aveva reso la sua Riace un modello (ammirato in tutto il mondo) per l’immigrazione con integrazione, fa discutere. Anche chi lo ha vissuto le indagini e il processo da dentro. «Vivo un conflitto interiore, come persona e come magistrato. Comprendo il peso di una pena del genere: quando ho chiesto 7 anni e 11 mesi, sapevo che c’era il rischio di una condanna più alta», ha detto a Repubblica Michele Permunian, il pubblico ministero dell’inchiesta che ha portato alla condanna di Lucano per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Mimmo Lucano, parla il pm dell’inchiesta
La pena inflitta all’ex sindaco di Riace, quasi il doppio di quanto chiesto inizialmente, «è il risultato di un processo molto tecnico», ha spiegato Permunian, sottolineando come a Lucano siano stati contestati 22 reati: «Il problema non sono i finti matrimoni. Qui ci sono varie forme di peculato, truffa aggravata a danno dell’Unione Europea. E poi è stata riconosciuta l’associazione a delinquere con altre quattro persone». La pena, che sembra molto alta, non lo è se si leggono il capo d’imputazione e i reati contestati, ha concluso il pm: «Sono stato in Africa, so che aiutare i migranti è un dovere. Ma se usi il denaro dello Sprar per fini privati, si configura un reato. Se non restituisci i soldi in eccedenza, è un reato».
Mimmo Lucano, la spiegazione di Luigi D’Alessio
Il procuratore di Locri Luigi D’Alessio, invece, ha parlato con La Stampa: «Tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali», ha spiegato, sottolineando poi come gli alloggi destinati ai migranti fossero «abitati dai cantanti invitati per i festival», nell’ambito di «una mirabile idea di accoglienza riservata a pochi eletti». A detta di D’Alessio, Lucano «manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno», incassando i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, quando «non c’era un migrante che lo parlava». Polemiche dunque inutili per il procuratore di Locri, quelle che hanno seguito la lettura della sentenza, frutto di «un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili». Come esce dunque la figura di Lucano da tutto questo? Secondo D’Alessio, come quella di «un bandito da western. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti».