Pistola fumante nella Milano elettorale. A estrarla, in senso figurato, è stato Luca Bernardo, candidato del centrodestra, che ha dato agli elettori dell’avversario Beppe Sala dei “pistola”. Versione bonaria dell’insulto milanese per antonomasia: pirla. Non proprio un’espressione felice quella del pediatra del Fatebenefratelli se non altro perché ha rispolverato il primo scivolone della sua campagna. Già perché se sotto la Madonnina c’è chi un pistola lo sarà, c’è anche chi una pistola ce l’ha e sostiene di averla portata persino in ospedale (a volte, durante i turni notturni, mai in corsia tra i pazienti, ha precisato Bernardo).

I pistola, da Renato Pozzetto a Enzo Jannacci
Che poi “pistola”, per un milanese, ha una sfumatura musicale, familiare. Pare di sentirli ancora il Dogui cummenda e Mauro Di Francesco, altra maschera vanziniana: «Uè pistola, uè testina». O Renato Pozzetto che in È arrivato mio fratello si sdoppia: «Cercavo un tizio che fa il professore, Ceciotti Ovidio». «Sono io, ma lei chi è?». «Sono tuo fratello, Raffaele! Ciao pistola!». Senza dimenticare i pistola cantati da Enzo Jannacci. «Va quel li’, el gh’ha compraa anca la stola, el dev ess on poo on pistola. Quel pistola seri mi», recita T’ho compraa i calzett de seda dell’album Milano del 1964. Il pistola in questione è un magnaccia guardato in cagnesco dai passanti perché spende soldi per agghindare la fidanzata prostituta che lascia ogni giorno in piazza Beccaria, nel cuore della città. Ma alla fine tanto pistola non è. «Ah? Saria mi el pistola? El pistola te se ti. Te ghe la miè de mantegni Te lavoret tutti el di’…». Cioè, il pistola sarai tu che hai la moglie da mantenere e lavori tutti i giorni.
Quelli della banda dell’Ortica
Altri “pistola” che si muovevano nelle notti coperte dalla scighera erano quelli della banda dell’Ortica, almeno a detta del famoso palo a corto di diottrie («el ghe vedeva istess de nòtt come ‘n del dì») che alla fine decideva di mollare i compari per mettersi in proprio perché «Mì sont on palo, minga on pippa, a ghe stoo pu! Mì vegni foeura de ‘sta banda de pistola» (Io sono un palo, non un pirla, non ci sto più. Io vengo via da questa banda di pistola).
Gaber e La Pistola, era il 1978 ma pare scritta oggi
Dai pistola alla pistola. Quella che in «questi nostri tempi di sconvolgimenti» è meglio comprarsi per difendersi da soli visto che «lo Stato non agisce e tanto meno cautela». Giorgio Gaber lo scriveva nel 1978, ma pare cronaca di oggi, con gli assessori che trasformano la “provincia delle casalinghe” in un far west. Il Signor G non canta di una pistola qualsiasi, «ma una sette e 65, automatica, fuori ordinanza. Calcio scuro con quadrettature canna, grilletto cromato, con scatto dolce clic clic clic». L’acquirente, attratto fisicamente dal ferro, lo tiene sempre in tasca: «Cammino tutto irrigidito ma mi sento bene, come se fossi eternamente in erezione. Ogni tanto entro in un orinatoio. Un attimo per guardare l’oggetto stupendo, nessuno può sapere che cosa sto facendo».
Milano e gli Anni di piombo
Un anno prima, nel 1977, Silvio Berlusconi – che aveva appena completato Milano Due ed era stato nominato Cavaliere – si fece fotografare in posa negli uffici della Edilnord da Alberto Roveri, ex di Panorama. Anni dopo, nel 2010, il fotografo si accorse che sulla scrivania spuntava un revolver. «Dopo più di due ore mi invitò a pranzo e prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l’autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: “Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?», raccontò Roveri all’Espresso.

Sempre nello stesso anno – il 14 maggio del 1977 – in via De Amicis (dove fu ucciso l’agente Antonio Custrà) fu scattata un’altra foto che diventerà simbolo degli Anni di Piombo: un ragazzo con il passamontagna, le gambe piegate, punta una pistola ad altezza d’uomo.

La Milano dei poliziotteschi Anni 70
Anni di Piombo, si diceva. Anni di violenza, di morti ammazzati. E di pagine nere, come la strage al ristorante Le Streghe di via Moncucco del 3 novembre 1979 che lasciò sul pavimento otto vittime. Poi c’è il cinema. Lo stradone di via Palmanova, la Bovisa con il gasometro, il Ponte della Ghisolfa, la Torre Branca, il Sempione, fino all’Alzaia del Naviglio Grande diventano set di poliziotteschi e noir dove la pistola è d’ordinanza e ordinaria amministrazione. Pellicole che ispireranno Quentin Tarantino e che raccontano di una Milano violenta, rovente. Che “odia” e “trema” come recitano i titoli campioni di incasso ai botteghini di quel periodo: Milano odia: la polizia non può sparare del 1974, con Tomas Milian per la regia di uno dei maestri del genere, Umberto Lenzi, che nel 1973 aveva già girato Milano Rovente. Milano violenta di Mario Caiani del 1976. E poi: Milano trema: la polizia vuole giustizia di Sergio Martino, con gli inseguimenti spettacolari sulle Citroen Ds, le Iso Grifo e le Bmw 1800. E Milano calibro 9, film del 1972 di Fernando Di Leo, stesso titolo della raccolta di racconti Giorgio Scerbanenco del 1969. Storie in cui le armi sono pane quotidiano; dove una Balder viene nascosta persino nel reggicalze dalla Signorina senza rivoltella e una Steik calibro 9 è estratta dalla tasca della pancera di David, uno dei due sicari americani del racconto che dà il titolo al libro.
La ligera, la mala senza pistole
Prima della criminalità violenta di Francis Turatello, Angelo Epaminonda e Renato Vallanzasca, la mala della Milano del Dopoguerra era la ligera, chiamata così forse per la “leggerezza” degli abiti e delle tasche dei banditi costantemente vuote o forse perché giravano leggeri, senza armi e senza spargere sangue. Bande non troppo organizzate, di quartiere. Spesso formate da ex partigiani. Personaggi che alimentarono una epopea popolare, quella cantata per esempio da Ornella Vanoni nella celebre Ma mi…, scritta da Giorgio Strehler.
E fa pensare come a Milano la “rapina del secolo”, l’assalto a un furgone portavalori in via Osoppo il 27 febbraio 1958, sia stata portata a termine senza sparare un colpo: si narra che uno della banda si sia limitato a gridare «TA TA TAT TA TA», imitando la raffica di un mitra. Solo un anno dopo usciva nelle sale L’audace colpo dei soliti ignoti di Nanni Loi che raccontava di un assalto fallito a un portavalori che trasportava l’incasso del Totocalcio.
Se le armi non erano nelle tasche dei ligerini, nel loro gergo la pistola aveva diversi soprannomi. Cagafoeug, ferr, luganega (proprio come la salsiccia). E infine, se automatica, rosario perché i proiettili uscivano uno dopo l’altro, a ripetizione, proprio come i grani. E qui il cerchio potrebbe chiudersi. Un candidato sindaco dà dei “pistola” agli elettori dell’avversario è appoggiato da un segretario di partito che ama impugnare rosari tra la folla sotto lo sguardo della Madunina. A vederla da questa prospettiva, pare più una minaccia più che un’esibizione di fede.