Nel deserto di Sonora, che i migranti del Sud America diretti negli Usa attraversano nel tentativo di eludere le pattuglie di frontiera e aggirare le barriere del confine col Messico, la strage si consuma giorno dopo giorno. Ogni anno, racconta il Guardian, in quel territorio si contano almeno 350 decessi tra richiedenti asilo e persone in fuga dalla povertà. Alla base delle numerose morti, oltre a suicidi e incidenti stradali, c’è anche il cambiamento climatico. Come spiega una ricerca pubblicata su Science, infatti, la zona arida del deserto si sta ampliando, con la colonnina di mercurio in grado di toccare in estate i 48 gradi centigradi. Così caldo e disitratazione mettono ulteriormente a dura prova i corpi dei migranti, già martoriati dalla fatica di un viaggio lunghissimo. E lo scenario è destinato a peggiorare. Entro tre decenni, calcolano gli scienziati, per attraversare il Sonora sarà necessario portarsi dietro il 34 per cento in più di riserve d’acqua rispetto ad oggi. «Se le temperature cresceranno con il ritmo attuale, nel giro di trent’anni raggiungere il confine da quelle parti diventerà impossibile per qualsiasi essere umano. Una sfida in cui le possibilità di successo si ridurranno vertiginosamente», ha sentenziato Hallie Walker, ricercatore presso l’Università dell’Idaho e coautore dello studio.
Lo studio sui migranti che attraversano il deserto di Sonora
Lo ricerca di Science ha calcolato il costo, in termini di sforzo fisico, di un viaggio da Nogoles, città messicana di confine, a Three points, in Arizona. Il risultato è spaventoso: per morire bastano un paio di giorni, anche perché chi si cimenta nella disperata impresa il più delle volte è totalmente impreparato. Ancora peggio se si tratta di bambini e donne incinte, che a giugno avrebbero bisogno di almeno dodici litri di acqua al giorno. Basta questo dato a comprendere la correlazione tra gli alti livelli di liquidi consumati dall’organismo e la densità di decessi, specie durante la bella stagione. La carenza d’acqua provoca dapprima disorientamento e allucinazioni, segni premonitori di una situazione sull’orlo di precipitare.

Eppure sono in tanti coloro che non rinunciano al sogno americano, provando a raggiungerlo attraverso il deserto di Sonora. Se al 30 settembre, infatti, erano 1,7 milioni i migranti fermati dalle forze dell’ordine, chi le ha eluse, nella maggior parte dei casi, è passato per quella strada. Un inferno fatto di rocce e vegetazione rada, tra il Messico e il Sud ovest degli Stati uniti, caratterizzato un clima torrido d’estate e gelido d’inverno. Infestato da serpenti a sonagli. Nonostante tutto, passando da lì le probabilità di arrivare con successo negli Usa aumentano. A patto, naturalmente, di uscirne vivi. «Gli Stati Uniti incanalano nel deserto di Sonora gli individui costringendoli a sopportare condizioni inumane», ha raccontato Shane Campbell-Staton, ricercatore a Princeton e autore principale dello studio. Le storie dei sopravvissuti sono tremende, i più fortunati hanno accusato dolori al petto, altri hanno perso all’improvviso le unghie dei piedi. Qualcuno persino la vista. «Pensate che l’università mi ha negato il permesso di sottoporre gli animali agli stress di luoghi simili», sottolinea ancora Campbell-Staton.
La questione antica dei migranti tra Messico e Usa
La questione dei migranti tra Messico e Usa, d’altronde, è antica, non ha mai smesso di animare il dibattito e col tempo è diventata strumento di propaganda politica. La strategia Resta in Messico adottata da Donald Trump nel 2019 lo testimonia: dapprima osteggiata dall’amministrazione Biden, è stata successivamente ripristinata segnando una linea di continuità tra Repubblicani e Democratici. Prevede la possibilità di rispedire oltre il confine coloro che ancora sono in attesa dell’esito sulla richiesta di protezione avanzata presso gli uffici americani. L’obiettivo è scoraggiare il viaggio in partenza, rendendolo il più complicato possibile. Gli esiti, però, non sono quelli sperati. E alla disperazione purtroppo dilagante di chi proviene da America Latina e Centrale, di recente si sono aggiunte le conseguenze del climate change.

Siccità e tempeste hanno devastato raccolti, campi e, di riflesso, le comunità di agricoltori, costretti a cercare alternative spingendosi verso Nord. Ad attenderli, dice Jason De Leon, antropologo dell’università della California, non c’è esattamente la terra promessa: «Li uccidiamo consapevolmente al confine. Ignoriamo, tuttavia, che una volta qui si occupano delle professioni più umili, quelle che gli americani non vogliono svolgere». Ma un aspetto non si può trascurare: «Sempre più spesso ci confronteremo con persone che abbandonano le proprie case per il cambiamento climatico». Rendersene conto, forse, aiuterebbe a cercare soluzioni adeguate.