Midterm 2022, il confine tra sconfitta e disfatta per Joe Biden
Alle elezioni americane di metà mandato i repubblicani sono favoriti, ma se il presidente Biden perdesse sia Camera sia Senato, i dem parlano già di conseguenze «apocalittiche». Le misure su fisco, aborto e minoranze etniche rischiano di diventare impossibili. E Trump, pronto al solito referendum su di lui, vuole intestarsi la vittoria. Gli scenari.
La sconfitta dei democratici di Joe Biden nel voto di midterm di martedì 8 novembre 2022 è considerata certa: dipende che tipo di sconfitta, e se sarà sconfitta o disfatta. La storia elettorale americana degli ultimi 150 anni è, per questo tipo di votazioni, contro il partito del presidente in carica. Le note tristi del midterm blues mettono promesse e realtà a confronto. Nei 34 voti di metà mandato tenuti dal 1882 a oggi (prima non c’era una giornata unica per il rinnovo del Congresso, tutta la Camera e un terzo del Senato ogni due anni come avviene ora), solo in quattro casi il partito del presidente ha perso alla Camera meno di 4 seggi. Nel 1934 perché Franklin Roosevelt era ancora una speranzosa novità, nel 2002 perché George W. Bush godeva ancora della spinta di unità nazionale imposta dai terribili attentati islamici del 2001, nel 1962 perché l’economia fortissima aiutò John F. Kennedy e lo stesso fu nel 1998 per Bill Clinton. E non c’era inflazione. Anche nella più che ottimistica ipotesi della perdita di soli cinque seggi il controllo della Camera, risicatissimo oggi per i democratici, sarebbe da gennaio perduto. Difficile migliorare poi al Senato, dove oggi il margine è di un solo voto, e se la maggioranza democratica dovesse risultare migliorata di uno o due voti sarebbe un miracolo. L’ipotesi della vigilia è quindi di una Camera e di un Senato a maggioranza repubblicana.

I dem agitano lo spauracchio dell’estremizzazione ideologica
Oggi i repubblicani hanno due forti argomenti, l’inflazione che fa dimenticare il buon andamento della crescita economica, e l’ordine pubblico, con la criminalità in forte aumento in varie aree del Paese, e considerata da molti, a ragione o a torto, alimentata anche dall’immigrazione illegale. La campagna elettorale democratica si è quindi concentrata su un punto: il rischio per la democrazia americana dall’estremizzazione ideologica di parte del partito repubblicano, i cosiddetti Maga republicans, dallo slogan centrale trumpiano Make America Great Again. Anche i Maga republicans e la loro predilezione per armi, violenza e assetti paramilitari sono un attacco all’ordine pubblico come dimostra molto altro oltre il clamoroso assalto al Congresso del 6 gennaio 2001 nel folle tentativo di cambiare manu militari i risultati del voto presidenziale. Biden sta concentrando su questo, sulla salvaguardia delle regole democratiche, gli interventi dell’ultima settimana. E da tempo, in alcuni collegi i democratici si sono spinti fino al punto di sostenere dietro le quinte, con i budget pubblicitari, e già dalle primarie, la campagna dei candidati repubblicani più oltranzisti per far meglio risaltare l’improponibilità delle loro tesi; qualche risultato sembra esserci, ma non è ancora chiaro. Resta il fatto che se i repubblicani sono divisi nell’appoggio a Donald Trump, molto forte a livello parlamentare e assai meno nella base elettorale, sono uniti sui temi dell’economia, dove da sempre il partito repubblicano è considerato da molti elettori, alla fine, più affidabile.

Eppure il tasso di disoccupazione è di appena il 3,5 per cento
La probabile vittoria repubblicana è, anche al netto della tendenza storica ricordata, sconcertante. E questo perché, come osserva Jeffrey Frankel, economista ad Harvard e a suo tempo consigliere economico di Bill Clinton, «il partito repubblicano è oggi dominato da una tendenza estremistica i cui capi sostengono (o hanno sostenuto) non solo che l’ex presidente Donald Trump ha in realtà vinto il voto del 2020, ma anche che il cambiamento climatico è una balla, che il Covid è frutto di una cospirazione e che l’ex presidente Barack Obama non è nato negli Stati Uniti e quindi a norma di Costituzione non poteva essere eletto. Molti repubblicani non dicono queste cose, molti che le dicono non ci credono, ma il partito è in mano agli estremisti trumpiani». Ma se sono divisi, perché molti repubblicani non se ne staranno a casa e andranno invece a votare per un partito che non ritengono oggi degno di stima? «Lo faranno in nome dell’economia», dice Frankel, «dimenticando un tasso di disoccupazione di appena il 3,5 per cento».

Anche i collegi sicuri del 2020 sono fortemente a rischio per Biden
Biden è riuscito a far approvare dopo una battaglia durata un anno e mezzo il suo ampio programma di investimenti, legati alla politica ambientale, chiamato prima Build Back Better e ribattezzato poi, in forma più snella, Inflation Reduction Act of 2022. Ma su molto altro che ha a che fare con fisco, aborto, minoranze etniche e nomine nel sistema giudiziario tutto rischia di diventare molto difficile, se non impossibile. «Il dato pauroso al momento di Halloween è fornito dal numero dei collegi che il presidente Biden ha vinto comodamente nel 2020 e che oggi invece, per il Congresso, sono fortemente a rischio», ha scritto Dave Wasserman, che segue la Camera per l’autorevole Cook Political Report, una analisi indipendente degli eventi elettorali. Una conquista repubblicana della Camera e peggio dell’intero Congresso avrà conseguenze «apocalittiche» e vorrà dire «blocco del bilancio federale, chiusure di uffici per mancanza conseguente di fondi, e una serie costante di richieste di impeachment», ha detto Chris Murphy, senatore democratico del Connecticut.
Trump ci riprova, ma è braccato da inchieste e atti di accusa
A rischio c’è anche il destino della Commissione d’indagine della Camera, commissione bipartisan, sui fatti del 6 gennaio 2001, quando una folla violenta istigata dallo stesso Trump si scagliò contro l’edificio del Congresso obbligando i senatori che stavano valutando i risultati del voto presidenziale a cercare rifugio in ogni angolo. La Commissione presenterà il suo rapporto conclusivo entro l’anno e sarà un pesante atto di accusa contro Trump, chiamato a deporre di fronte alla Commissione. Trump cerca di farsi proteggere dalla Corte Suprema, che già ha rinviato la presentazione a un’altra Commissione della Camera delle finora mai rese pubbliche sue dichiarazioni dei redditi. Certamente la vittoria repubblicana alla Camera suonerà la campana a morto, formalmente o di fatto, per la Commissione sul 6 gennaio. Trump ha una valanga di altre inchieste in corso, federali e locali, sui suoi tentativi di invalidare il voto del 2020, sui comportamenti finanziari delle sue imprese e su altro, ed è chiaramente un simbolo divisivo e un leader pericoloso per la maggior parte degli americani. Ma il partito repubblicano deve ancora decidere che cosa scegliere, a fronte dell’efficacia del messaggio radicale e oltranzista di Trump e dei trumpiani («vogliono cancellarci e dobbiamo difenderci con ogni mezzo»), e a fronte della forza finanziaria dei suoi sostenitori.

L’America sta diventando pure peggio di quella isolazionista
La molto probabile vittoria repubblicana dell’8 novembre verrà presentata da Trump come una sua vittoria. Potrebbe essere vero in molti collegi, e falso in molti altri. L’analisi andrà fatta localmente. E la vera battaglia ci sarà solo con le presidenziali del 2024, che decideranno la fine (o l’inizio della vera fine) del trumpismo o la definitiva trasformazione degli Stati Uniti, per una generazione almeno, in qualcosa di assai peggio di quella che fu l’America radicalmente isolazionista (ma molto più in retorica e leggi immigratorie che in finanza ed economia) degli Anni 20 del 900. Le forze del trumpismo non stanno aumentando, stanno diminuendo, per quanto rumorose e pronte a scendere in piazza con il mitragliatore al collo. Sul campione intervistato dalla Project on Security and Threats dell’Università di Chicago il 5 per cento, pari a circa 13 milioni di americani adulti, dice che anche l’uso delle armi è giustificato per difendere il buon diritto di Trump a vedere confermata la sua “vittoria” del 2020. Alla stessa domanda aveva risposto affermativamente, un anno fa, il doppio del campione, pari a 26 milioni di americani.
I motivi dietro la radicalizzazione? Sentirsi marginalizzati
I motivi di questa radicalizzazione arrivata a livelli impressionanti nel Paese considerato il paradigma dell’equilibrio democratico sono noti e analizzati da tempo. In breve, si possono così sintetizzare: un’America che si sente marginalizzata economicamente e culturalmente, vede cioè dominare un’idea del Paese che non è la propria, è pronta a seguire anche i peggiori demagoghi pronti a promettere un ritorno al passato camuffato da brillante futuro, e disdegna invece una più ragionevole contrattazione mirata a far sentire anche la propria voce. Gli errori della parte avversa, i progressisti, contribuiscono a questo, ma certo non lo spiegano né tantomeno lo giustificano. L’ex capogruppo repubblicano della Camera Newton Gingrich, che fu negli Anni 90 il Giovanni Battista di Donald Trump, il precursore, ha detto di aspettarsi una valanga di nuovi deputati repubblicani, da 40 a 70 in più. Su queste previsioni andranno misurati i risultati. Se Gingrich ha visto giusto, non basterà riflettere.