Alla festa della galleria Wunderkammern che in occasione del MiArt ospita la personale dell’artista britannico D*Face, scavalco il cordone per entrare e vado a sbattere contro un gruppo di fanatici dell’hip-hop mischiati a un gruppo di figli di papà “molto young” che aspettano il loro turno davanti all’ingresso. «D*Face, uno degli esponenti dell’arte urbana più importanti della scena britannica e internazionale, è nato e cresciuto a Londra, dove già dalla sua prima mostra del 2005 ha conseguito importanti successi di pubblico e di critica. Ha coltivato sin da adolescente il suo interesse per i graffiti, la musica hip-hop, l’estetica punk e soprattutto la cultura skate, anche grazie alle pagine della rivista americana Thrasher», è scritto sull’opuscolo che tengo in mano mentre varco la soglia della galleria e mi faccio largo tra la gente infilandomi nel separè del deejay. Prendo un bicchiere di prosecco dal banchetto del buffet e mi guardo intorno, muovendomi incerto nello spazio e cercando di catturare il più possibile l’atmosfera. Dato che sono stato ingaggiato da un noto esponente della scena writing underground milanese a curare la selezione musicale della sua personale, che si terrà tra un paio di mesi, sono venuto qui a sbirciare provando a rubare qualcosa, nel caso mi potesse servire. Da un paio di settimane sono tornato sulla scena, anche se in realtà non me n’ero mai andato, con un nuovo programma, prodotto dal dj Lillo Carillo, in coppia con Alb, il mio socio radiofonico, realizzato dal vivo in un locale del centro. Niente di più che una marchetta ben pagata all’interno della quale però siamo completamente liberi di dire e fare quello che vogliamo.
Stringo tra le mani un bicchiere di prosecco e mi guardo allo specchio, con il cappuccio della felpa tirato su, la barba sfatta e l’occhio sinistro esploso per una merdosissima congiuntivite. Incontro un paio di facce che conosco, da lontano qualcuno mi sorride mentre un giapponese scatta fotografie a D*Face, al centro della scena
Settimana scorsa ho visto su Sky il biopic su Elvis girato da Baz Luhrmann, tornato dietro la macchina da presa a nove anni di distanza da Il Grande Gatsby. Mi è sempre piaciuto Baz Luhrmann come regista e ho sempre apprezzato la sua estetica alternativa e post-moderna la cui narrazione esagerata, funambolica e colorata, ha aperto nel cinema nuove visionarie prospettive ricche di riferimenti culturali, trattando drammi di qualsivoglia epoca temporale trasformandoli in fantasie pop viscerali ed elettrizzanti. Quasi fosse un deejay alle prese con un remix. Anche in Elvis, per esempio, è riuscito a trasformare il “re del rock ‘n’ roll” in un supereroe pop e la sua storia in un’epopea. Epopea nella quale la parte decadente (quella della prigionia di Elvis nel dorato International Hotel di Las Vegas, che lo porterà al crollo definitivo, prima della sua morte a soli 42 anni, nel 1977), è stata sicuramente quella che maggiormente mi ha affascinato. Così nella furia cieca dei miei pensieri mi sono costruito attorno l’illusione che questo ingaggio in quel locale del centro, tra via Agnello e via Ulrico Hoepli, fosse per me paragonabile alla stagione di Elvis trascorsa a Las Vegas a fine carriera, in cui la leggenda vivente, ormai totalmente appannata, arrancava sui palcoscenici tutte le sere (da super-resident), vestito in modo improbabile, come una specie di personaggio della Marvel sovrappeso e strafatto di psicofarmaci. Nella vita privata, il Re soffriva ed era irrequieto, stava bene solo sul palco a esibirsi con la musica che amava. Io di tutta risposta sto bene solamente quando, seduto davanti a un microfono, passo uno dopo l’altro dischi pazzeschi parlando alla radio. E in fondo poco cambia che lo faccia in un locale del centro o che lo faccia sulle frequenze di una qualsiasi radio in FM. L’importante è farlo. Elvis, inoltre, avrebbe voluto diventare anche un grande attore, come James Dean o Marlon Brando, ma nella sua carriera gli sono stati offerti sempre e solo film di qualità sempre più scadente. Io anche, fin da ragazzo, avrei voluto diventare un grande scrittore, ma all’alba dei 43 anni sono riuscito solamente a diventare un mezzo critico letterario per un paio di giornali di carta, però mega precario e senza lo straccio di un contratto.
Penso a questo mentre stringo tra le mani un bicchiere di prosecco alla festa e mi guardo allo specchio, con il cappuccio della felpa tirato su, la barba sfatta e l’occhio sinistro esploso per una merdosissima congiuntivite. Incontro un paio di facce che conosco, da lontano qualcuno mi sorride mentre un giapponese scatta fotografie a D*Face, al centro della scena, e io comincio nella mia mente a pensare ai nomi dei gruppi da inserire in un’ideale playlist che potrebbe adattarsi a una serata come questa: roba old school come Shugarill Gang, De La Soul, Grandmaster Flash, A Tribe Called Quest, The Roots, MF Doom, Madlib, JDilla, Soul of Mischief, Beastie Boys, Nas, Snoop Dogg, Tupac, Notorious BIG, Beastie Boys e compagnia bella; oltre a un mix di cose più recenti tipo Post Malone, naturalmente Kendrick Lamar, Anderson Paak, perfino Stormzy o altra roba un po’ da fighetti come Frank Ocean, Blood Orange, Flying Lotus, Tyler The Creator o Little Simz. Sono così perso nei miei pensieri che a un certo punto non mi accorgo nemmeno che ho davanti un tizio con un cappello da chef che mi schiocca due volte le dita sotto il naso. Quando lo riconosco mi tiro giù il cappuccio della felpa, metto il broncio, mi guardo in giro, ammicco e mi chiedo quanto, conciato così, sembri ancora figo agli occhi della gente. Quasi mi manca il respiro quando vedo che davanti a me c’è Alino. Alino Piroddi.
Quel pomeriggio in Piazza Leo le ragazze guardavano Alino, che indossava una camicia ultracolorata e dei pantaloncini cargo abbinati a un paio di Converse Chuck Taylor e gli dicevano: «Quanto sei figo Ale, ancor più figo di DiCaprio nel film». E io, in disparte, a mia volta lo osservavo invidioso ben consapevole che frasi come quelle, Giuditta e Denise, a me non le avrebbero mai dette
Un flashback del 1998, un pomeriggio in Piazza Leo. Siamo io, Alino, Giuditta e Denise. Tutti ex compagni di classe alle elementari alla Leonardo da Vinci, stiamo caricando un chilum di charas seduti su una panchina, a pochi metri di distanza da quella che una volta era la nostra scuola. Le ragazze sono già strafatte e parlano di un film che hanno appena visto, Romeo+Juliet, di Baz Lurhmann (sempre lui), dove hanno visto recitare un attore di nome Leonardo DiCaprio, all’epoca in largo anticipo rispetto ai fasti del Titanic. Romeo+Juliet con i suoi costumi variopinti e le sue scenografie mozzafiato, aggiunti a una colonna sonora da Billboard e il caratteristico montaggio superveloce di Luhrmann, fu un successo sotto tutti i punti di vista. L’ambientazione è Verona Beach, una versione “gangsta” della reale Venice Beach losangelina, la pellicola è un tripudio di pistole automatiche e camicie hawaiane, all’interno della quale, oltre al dramma shakesperiano, si fronteggiano i rampolli dei due clan rivali, al ritmo di una colonna sonora in sonetti suonata da Radiohead e Garbage. Nonostante la modernizzazione del tutto, Luhrmann decise però di tenere un linguaggio arcaico, e molte battute furono tratte testualmente dal dramma originale, cosa che non fece che aumentare l’effetto straniante del film. Romeo + Juliet riuscì nell’impossibile compito di rendere appetibile il dramma di Shakespeare alla generazione MTV. Tutti noi ne andavamo pazzi. Quel pomeriggio in Piazza Leo, tutti fumati d’hashish, le ragazze guardavano Alino, che indossava, come DiCaprio nel film, una camicia ultracolorata e dei pantaloncini cargo abbinati a un paio di Converse Chuck Taylor e gli dicevano: «Quanto sei figo Ale, ancor più figo di DiCaprio nel film». E io, in disparte, a mia volta lo osservavo invidioso ben consapevole che frasi come quelle, Giuditta e Denise, a me non le avrebbero mai dette. Di Giuditta in particolare eravamo innamorati entrambi fin da piccoli, quando piangevamo abbracciati sotto il banco della nostra classe di terza elementare, attendendo che lei scegliesse uno fra noi due. Poi gli anni passarono, crescemmo e loro si misero insieme ufficialmente intorno ai 16 anni. A dire il vero io la mia rivincita me la presi un anno dopo quando con Giuditta persi la verginità, una sera di giugno del 1997, a casa sua, complici una bottiglia di Mateus rosè e un grammo di cocaina. Serata che ricordo ancora oggi come tremenda e imbarazzante allo stesso tempo con me sopra di lei tutto rosso paonazzo che provo senza successo a penetrarla con la mia sensibile punta. Nello stesso periodo di quel pomeriggio in Piazza Leo del 1998 invece avevo preso a uscire con una ragazza della mia scuola, un istituto privato per disadattati di buona famiglia specializzato in recupero anni, di nome Azzurra.

Azzurra veniva a bussare alla porta della mia aula e chiedeva alla prof se potevo uscire, in minigonna e scarpe con il tacco, poi andavamo a casa sua in via Pisacane, accendevamo MTV e io facendo uno spino dopo l’altro la guardavo sognante, perché era semplicemente troppo bella. Ogni tanto ci baciavamo, poi uscivamo e raggiungevamo gli altri in Piazza Leo, e il sabato andavamo in discoteca assieme all’American Sporting Club in Piazzetta Giordano, il locale che era nato sulle ceneri del Madame Claude. Azzurra guidava uno scarabeo rosso con il quale mi portava in giro per la città, io saltavo in sella dietro di lei, mi infilavo il casco, le stringevo la vita e mi appoggiavo alla sua schiena, tutto fiero. Poi un giorno di giugno con gli esami del biennio che si stavano avvicinando andammo in piazza Leo e, mentre eravamo stesi su un plaid uno di fianco all’altra a studiare, Azzurra conobbe Alino. Poi arrivarono gli altri, il drugo Fede, Ale Cash, Valeriano e uno di loro, non ricordo bene chi, mi sussurrò all’orecchio: «Scommettiamo che la tua amica se la scopa Alino entro la fine del week end?». Corvi e cornacchie volteggiavano sopra le nostre teste mentre io, in paranoia, impastavo un lotto di caramello sdraiato fra loro e iniziavo a notare che si stavano scambiando occhiate segrete. Qualche giorno dopo andammo assieme, sempre a bordo del suo scarabeo rosso, a una festa a casa di un tizio che conoscevo per dei giri della discoteca di nome Mario Verdi, che tutti chiamavamo Green Boy. Erano state invitate diverse compagnie tra cui la nostra, con il drugo fede, Ale Cash, Valeriano, Simone Battani, Pippo e quella di Alino, con Spillo, Gianbarella, e Max Binda che da poco si era fidanzato con Denise. C’era molta vodka e parecchia cocaina quella sera alla festa a casa di Green Boy in via Corridoni dietro al tribunale e fu proprio in quell’occasione che Azzurra si scopò Alino nella camera da letto dei genitori di Green Boy. Ricordo il drugo fede che arriva da me tutto confidenziale a darmi la notizia, e io che entro nella camera dei genitori e c’è Azzurra completamente nuda con Alino che glielo mette da dietro in modo fiacco. Azzurra ci vede e, sempre a pecora, senza nemmeno provare a giustificarsi ci chiede gentilmente di uscire dalla stanza e di chiudere la porta. La storia di Azzurra era solo un replay di quello che era successo in maniera meno evidente l’anno prima al liceo Volta con un’altra ragazza di nome Delfina che stava nella classe di fianco alla mia, con cui ogni tanto avevo l’ardore di nascondermi nei cessi della scuola a scambiarmi baci furtivi ai cambi dell’ora.
Mentre esco dalla Galleria sento una voce che mi chiama: «Andre, ascolta, ma ce l’hai ancora il cappello di mio nonno che ti ho regalato tempo fa? Sappi che sei l’unico a cui ho dato in vita mia uno dei miei cappelli. Abbiamo un legame indissolubile noi due, ci conosciamo da 40 anni. Sei ancora il mio migliore amico!». «Sì». Annuisco. «Anche tu, hombre, anche tu»
Non vedevo Alino Piroddi da molti anni all’epoca, un lontano ricordo delle elementari, il mio ex migliore amico di quando eravamo piccoli, si poteva dire, fino a quando decise di cambiare scuola e venire per qualche mese anche lui nel mio liceo. Alino Piroddi è alto circa un metro e 85, ha folti capelli neri tirati all’indietro, occhi verdi scuro e un sorriso candido e birichino allo stesso tempo che solleva una mascella perfetta. Da quando è tornato a far parte della mia vita iscrivendosi nel mio liceo siamo tornati a essere inseparabili come da cuccioli e nonostante trovi la cosa un poco esasperante non riesco a staccarmi da lui, lo ascolto con un’attenzione mai prestata ad altri, perché il fatto incontrovertibile è: Alino Piroddi è troppo bello per resistergli. È irresistibile e non puoi farci niente. Un giorno all’intervallo siamo in piedi nel cortile della scuola uno di fianco all’altro e Delfina ci vede, si toglie gli occhiali da sole e ci viene incontro sorridendo togliendosi gli occhiali da sole. Delfina ha lunghi capelli castano chiaro, un paio di zigomi straordinari e due occhi color nocciola così espressivi che sembrano artificiali da quanto sono belli. Alta, magra, slanciata, un corpo scolpito, oggi sembra ancor più figa del solito perché è appena tornata da Santo Domingo ed è abbronzatissima anche se è gennaio e in città fa un freddo cane. Le sorrido a mia volta e mentre si avvicina mi preparo a un bacio davanti ad Alino per mostragli la mia nuova preda. Ma Delfina mi supera, e io apro gli occhi e mi volto. Lei e Alino si stanno abbracciando e lui la bacia con trasporto, rumorosamente, e ci vuole troppo tempo perché Delfina si accorga di me di fianco a loro in piedi a fissarli. «Vi conoscete?», è tutto quello che riesce a dire Alino dopo aver visto la mia faccia.
Questo tanto per dirvi quanto possa farmi piacere trovarmelo improvvisamente davanti alla festa della Galleria, che in occasione del MiArt ospita la personale dell’artista britannico D*Face, con indosso un voluminoso cappello da chef. Forse non ci vediamo da almeno 10 anni. Se io sono esploso, con l’occhio che mi lacrima e la barba di tre giorni, se lo osservo bene anche lui non mi sembra granché in forma, bolso, appesantito con i bottoni della divisa bianca da cuoco che a fatica gli si chiudono sul petto.
«Ehi, fratello, cosa ci fai qui?», mi domanda.
«Ehm, mi sono, come dire, perso», comincio, esitante. «E tu?».
«Oh». Alza gli occhi e mi fissa, sbatte le palpebre, poi risponde: «Sono uno chef famoso ormai, mi hanno chiamato per il rinfresco, conosco D*Face da anni, siamo diventati amici a Ibiza».
«Ah, sì?», dico sollevato
«E tu?».
«Per lavoro, diciamo».
«Devi scrivere un pezzo per qualche giornale?».
«Non esattamente», rispondo, scrollando le spalle.
«Lavori ancora alla Belle Aurore?».
«Oh lasciami perdere amico, lasciami perdere».
«È una vita dura, eh?».
«Durissima, cazzo».
«Ti capisco. Ritmi infernali. Io anche gestisco un ristorante a Sanremo. Sono appena tornato dalla Spagna. Ora mi sto prendendo una pausa. Cerco di rilassarmi un po’. Domani torno al mare».
«Mi sembra una mossa intelligente».
«Ogni tanto una pausa ci vuole, è un lavoro tremendo. Ho visto persone distrutte».
«Anch’io amico. La penso esattamente come te. E tua figlia? Come sta?».
«Vive a Tenerife ora. Con quella stronza della madre. Io preferisco stare solo. Nessun rapporto. Se voglio scopare pago. Non cerco nessun legame».
Faccio una pausa, distolgo lo sguardo, gli occhi mi si inumidiscono. Penso di ribattere qualcosa ma poi cambio idea e decido di passare oltre. Parliamo ancora un po’ del più e del meno, poi ci scambiamo i numeri di telefono e ci salutiamo prima che lui mi dica: «Però rispondi se ti chiamo, di solito non lo fai mai». Poi mentre esco dalla galleria sento una voce che mi chiama: «Andre, ascolta, ma ce l’hai ancora il cappello di mio nonno che ti ho regalato tempo fa? Sappi che sei l’unico a cui ho dato in vita mia uno dei miei cappelli. Abbiamo un legame indissolubile noi due, ci conosciamo da 40 anni. Sei ancora il mio migliore amico!». «Sì». Annuisco. «Anche tu, hombre, anche tu!».