La versione serba di #Metoo è drammaturgia al quadrato. Nasce come altrove nel mondo dello spettacolo ma da lì non si sposta nemmeno dopo aver visto dislocata la scena in tribunale, convertito in un altro palcoscenico. L’arte drammatica proseguita con altri mezzi. E nelle aule giudiziarie esso si accende di toni esagerati, assume coloriture grottesche. Con l’accusato che si fa mattatore, rovesciando lo schema altrove consolidato che costringe chi riveste quel ruolo a starsene rannicchiato in una zona di sconforto, come racchiuso dentro a una pre-condanna e a un’espiazione anticipatoria. E con molte fra le accusatrici che liberando il dolore represso avvertono anche l’ombra di una catarsi inversa, come un senso di colpa di ritorno. Tutto quanto spaesante, fuori controllo. A partire dalle due figure centrali dello scandalo. L’accusatrice da cui parte la catena delle denunce. E l’accusato, che passa i giorni del processo non già a difendersi ma a contrattaccare, contendendo il ruolo dell’accusa ai magistrati che hanno istruito il procedimento. Pubblico ministero a tutela della sua pubblica lesa maestà.
Milena Radulović e la denuncia contro la scuola di recitazione
La prima denunciante è Milena Radulović. Classe 1995, belgradese, Milena è la nuova diva del cinema serbo che ha già scalato una dimensione internazionale nella sfera della produzione culturale Est-europea. Ha conquistato la platea russa col ruolo da protagonista nell’horror fantascientifico Superdeep (2020), dove con piglio un po’ da Ripley nella saga Alien e un po’ Lara Croft interpreta il ruolo dell’epidemiologa Anya. La critica giudica alquanto discutibile la sceneggiatura, ma è concorde nel lodare la prova di Milena, che dal canto suo riceve da questa produzione un importante passaggio di consacrazione internazionale. La vicenda rappresentata in Superdeep si rifà a una realtà esistente: quella dell’abisso di Kola, il pozzo più profondo del mondo (circa 12 mila metri), chiuso nel 1984 dalle autorità sovietiche in seguito a episodi misteriosi. Come le voci strazianti che parevano venire su dalle profondità inferne, o la scomparsa di una ventina di persone. Nel film l’epidemiologa Anya si immerge in quell’abisso per scoprire la verità. E pochi mesi dopo il successo della fiction, ma stavolta nella vita vera, Milena Radulović decide di affrontare finalmente un abisso personale, molto più cupo e profondo: quello che la riporta ai giorni trascorsi nella scuola di recitazione dove si è formata a partire dall’età di 11 anni, “Stvar Srca”, che sta per “Questioni di cuore”. Quella scuola è diretta, con un piglio da santone, da un uomo che è l’altro personaggio cruciale, quello attorno al quale ruota l’intera vicenda.

Miroslav “Mika” Aleksić, l’intellettuale poliedrico
L’uomo in questione è Miroslav “Mika” Aleksić. Belgradese anche lui, classe 1952, presenta un profilo intellettuale poliedrico: attore, sceneggiatore, regista, produttore, persino pedagogo. Grazie a tanto eclettismo Aleksić si guadagna un posto di rilievo nell’industria culturale serba e il suo curriculum lo dimostra. Direttore artistico negli Anni 80 del Drama Studio della radiotelevisione ex jugoslava, pluripremiato come documentarista e come regista, autore di fiction radiofoniche e programmi televisivi, regista di tre opere cinematografiche fra il 1987 e il 2005. L’ultima fra queste porta nel titolo il nome della sua scuola di recitazione fondata nel 2004: “Una questione di cuore”. Il prestigio accumulato nel corso della carriera gli vale anche la possibilità di fare della propria scuola un punto di riferimento per giovani aspiranti artiste e artisti provenienti da ogni parte del Paese, ma soprattutto per le famiglie che affidando i figli a un formatore di così chiara fama sperano di vederli affermare un giorno come star nel mondo dello spettacolo. Va così che Aleksić, per oltre 15 anni, vede passare nella sua scuola circa 3 mila giovani e giovanissimi serbi, selezionati in una fascia di età che va dai 6 ai 13 anni. Materiale umano massimamente plasmabile. E nessuno ha il sospetto su ciò che possa accadere fra le mura della scuola di via Knez Mihajlova. Fino a che a svelare quei retroscena provvede l’allieva più illustre formata in quei locali: Milena Radulović.

Il racconto: violenze quando lei aveva 17 anni e lui 61
Il caso esplode a gennaio 2021. L’attrice rilascia un’intervista al quotidiano serbo Blic nella quale accusa Aleksić di averla violentata più volte a partire da novembre 2012, quando lei aveva 17 anni e lui 61. Aggiunge di non volere andare oltre nella descrizione dei dettagli su ciò che ha subito perché ne ha parlato con la polizia, che sta indagando. Le foto scattate durante l’intervista riportano un’immagine di tesa sobrietà. Dolcevita nero, sguardo tirato, non un filo di trucco al cospetto dell’intervistatrice. Milena Radulović aggiunge di non essere la sola a aver denunciato. Le fanno compagnia altre due ragazze, che lei non conosceva perché molto più giovani di lei e dunque appartenenti a un’altra leva. E la scoperta di non essere stata la sola abusata fra le allieve della scuola genera in lei un crudele effetto spiazzante, in seguito tratteggiato anche da altre ex allieve che si dichiarano vittime dei presunti abusi di Aleksić. L’effetto è un meccanismo tipico delle dinamiche contorte che sono tra le conseguenze più devastanti dell’abuso: l’incapacità di comprendere se la condivisione del trauma sia un sollievo o piuttosto un trauma secondario, che nasce dal non sentire più il malato privilegio di essere unica preda. Anche per guarire da questi demoni più subdoli, ancillari del demone principale dell’abuso, a Milena tocca affrontare un percorso terapeutico lungo anni prima di trovare la forza per tirar fuori il dolore, e per sciogliere il falso senso di colpa verso i genitori cui non dice nulla «per non rovinare loro la vita».

Dominio assoluto sulle acerbe personalità di allieve e allievi
E durante gli anni in cui reprime l’istinto di urlare il radicato malessere sente anche una stilettata sulla pelle tutte le volte che in pubblico qualcuno la presenta come «un’allieva di Strvar Srca». Perché sentir proferire quel nome le richiama alla mente non soltanto il maestro. Richiama anche i contorti meccanismi da lui usati per edificare una condizione di dominio assoluto sulle acerbe personalità di allieve e allievi, per instillare in loro una microfisica del potere che soltanto in età adulta sarebbero stati capaci di smascherare per ciò che è: una catena anche più soffocante dell’abuso fisico. Milena ha in mente tutto ciò, quando durante l’intervista concessa a Blic lancia un appello alle ex allieve che nel frattempo sono diventate madri. E che per questo nuovo status devono sentire il dovere di denunciare, evitando che i loro figli, come i figli di altre madri, possano cadere nella medesima rete dell’abuso fisico e psicologico.

Anche l’attrice Iva Ilinčić si aggiunge alle accusatrici
La descrizione di ciò che succede fra le mura di Stvar Srca, compiuta da Milena Radulović e da altre ex allieve (fra cui un’altra che nel frattempo si è affermata, l’attrice Iva Ilinčić) potrebbe comporre un trattato su tutti quei luoghi della formazione e delle dinamiche di gruppo che prendono la forma dell’istituzione totale spuria. Luoghi anomali perché, a differenza delle istituzioni totali propriamente dette (carceri, ex manicomi, strutture di internamento e detenzione), non prevedono la privazione formale della libertà né la permanenza totale al loro interno. Ma che per il resto comportano forme di controllo sull’individuo che vanno oltre l’esplicita coercizione per trasformarsi in dominio mentale assoluto. E in un’istituzione totale spuria può trasformarsi ogni luogo in cui si realizzi un’estrema asimmetria del potere, come tutte le scuole (di arte, di abilità fisica e tecnica, di educazione culturale e rieducazione etico-morale) in cui una figura da maestro assume un profilo quasi demiurgico rispetto alla platea di allievi e allieve. In quei contesti la condizione strutturale che consegna al demiurgo un potere estrattivo, quello di far emergere e poi plasmare il talento e le virtù, è la premessa per l’ulteriore potere di totale manipolazione. Fisica e mentale.

«Sei grassa come un elefante» e gli inviti a perdere peso
Le testimonianze raccolte a partire dall’esplosione dello scandalo fanno emergere che nella scuola di Aleksić queste condizioni c’erano tutte, né il maestro le ha mai smentite. E quanto fosse totale il controllo istituzionale sui soggetti è testimoniato dai tanti e concordanti aneddoti. Per esempio, l’obbligo di recitare in gruppo il Padre nostro prima di ogni lezione. O i rigidi codici di abbigliamento e cura della persona: le ragazze dovevano indossare la gonna; i ragazzi non dovevano calzare scarpe da ginnastica; tutti dovevano avere capelli e unghie in ordine. Quanto ai genitori, veniva intimato loro di non farsi più vedere a scuola dopo aver portato lì per la prima volta al momento dell’iscrizione. E poi c’erano le “regole”, che in realtà erano frasi da imparare come precetti e contenevano il senso del dominio assoluto da parte del maestro, che più che mai si elevava a indottrinatore e instillatore d’un remoto senso di colpa. Fra le tante frasi spicca quella che afferma: «Non sono arrabbiato perché menti, ma perché pensi che io ti creda». E partendo da questa pedagogia del dominio, inserita sottopelle come un chip, viene descritta l’edificazione di un regime di autoritarismo spinto nei locali di Stvar Stca, con l’aggressione verbale perennemente incombente e l’instillazione di un senso di inadeguatezza non soltanto performativa ma anche fisica. Come è capitato a una delle allieve, ripresa al cospetto dei compagni di corso perché «grassa come un elefante» e bruscamente invitata a perdere peso.

Gli insulti e il senso di colpa nei confronti dei genitori
Fra le tante testimonianze concesse ai media dopo, che la vicenda viene resa di dominio pubblico, c’è anche quella dell’attrice Branka Katić, che da giovane ha incrociato le strade di Aleksić in un altro contesto: «Come membro dello Youth Drama Studio guidato da Miroslav Aleksić, so che tipo di abuso mentale potesse esserci. Non passava un’ora che non mi mandasse a lavarmi, mi diceva che ero stupida. E abbiamo anche avuto un episodio in cui mi è stato proibito di fumare perché suonavo con la band, nella Hit del mese, che era parte dell’acquisizione di esperienza lavorativa durante il periodo del liceo. Mi ha fatto una scenata davanti a tutti, mi ha chiesto se andava bene per una ragazza di 15 anni farsi strada nel mondo da sola». Un regime di pressione insopportabile che adesso spinge qualcuno fra gli ex allievi a interrogarsi sul paradosso di aver pagato per anni l’impegnativa retta della scuola per guadagnarsi il diritto a essere pesantemente insultato, ma anche a fare i conti col senso di colpa tanto profondo quanto manipolatorio che li dissuadeva dal ribellarsi e raccontare la verità: perché il pensiero che i genitori spendessero così tanto per mandarli a lezione da Miroslav Aleksić faceva sentir loro il dovere di non deluderli.

L’arresto per quattro casi di stupro e cinque di molestie sessuali
E poi c’è la questione degli abusi sessuali di vario grado, che come nel caso denunciato da Milena Radulović toccherebbero il grado estremo dello stupro. Su tutto ciò il processo farà chiarezza. L’indagine parte dalla denuncia sporta dall’attrice. Che poi rende pubblica la vicenda con l’intervista concessa nel gennaio 2021 a Blic, cui seguono l’arresto di Aleksić e una detenzione che si protrae per otto mesi. A settembre 2021 il regista viene rilasciato con l’obbligo di indossare una cavigliera elettronica, dal quale verrà esentato a marzo 2022. In quel momento il procedimento in tribunale è formalmente iniziato, ma il suo sviluppo è particolarmente accidentato, quindi prende una strana piega per cui non si capisce da che parte stia l’accusa. Nel frattempo il numero delle denuncianti è aumentato. Al momento in cui il processo si apre, la pubblica accusa attribuisce a Aleksić quattro casi di stupro, due dei quali aggravati, e cinque casi di molestie sessuali.

«Penso di aver fatto parte di una setta, allora non lo capivo»
E fra le allieve accusatrici di Stvar Stca che nel frattempo hanno raggiunto il successo come attrici c’è anche Iva Ilinčić. Che nel rapporto con l’ex maestro ha subìto un’esperienza appena meno traumatica rispetto a Milena Radulović. E che raccontandola spiega i motivi di questo silenzio lungo anni che, come sempre in casi del genere, viene rimproverato alle denuncianti come se si trattasse di colpa grave: «Non sono stata violentata, fortunatamente non ho tale esperienza, ma sono stata continuamente molestata sessualmente. Per sei anni ho taciuto, negato, detto a nessuno, letteralmente a nessuno. Mi era chiaro che era brutto. Quando è successo la prima volta, mi sono detto: “Mika è come un padre per me, è impossibile che stia succedendo. E se succede, allora significa che è una cosa che mi tempra, che lui vuole prepararmi al duro mondo di registi e produttori”. L’ho giustificato, ho rifiutato di accettarlo. L’ho ignorato. E poi ho ammesso a me stessa la verità, che è stato un grande passo. Aleksić ci ha insegnato fin dalla tenera età a non parlare delle lezioni ai genitori, nemmeno al nostro migliore amico, perché sono affari nostri. Adesso, a 24 anni, penso di aver fatto parte di una setta, allora non lo capivo».

In tribunale Iva Ilničić si presenta accompagnata dal padre, che di mestiere fa l’avvocato. Ma non è lui a rappresentarla nel procedimento giudiziario. A farlo per lei, così come per Milena Radulović e altre due denuncianti, è l’avvocato Jugoslav Tintor. Che in patria è un personaggio emergente, con spiccato profilo mediatico. E proprio questa sua propensione ad agire da comunicatore oltreché da legale è fra gli elementi che disegnano il perimetro comunicativo e emotivo del processo. Un perimetro per l’istrione nato, per il grande manipolatore, diventa il palcoscenico di una performance radicale.
Il rapporto stretto con Željko Ražnjatovic, “la tigre Arkan”
Il percorso del processo in aula è estremamente faticoso. Delle 11 udienze tenute a partire dal febbraio 2022, soltanto sette sono di effettivo dibattimento. E su sette, ben cinque sono monopolizzate da Aleksić, che come se fosse impegnato in un lungo monologo a puntate si incarica di controbattere colpo su colpo alle accuse. Di più: l’accusa è lui, che più di tutti mostra di possedere il talento drammatico necessario a occupare la scena. Ci mette tutto se stesso: l’istrionismo imparato e poi insegnato durante una vita intera; il piglio mefistofelico di chi non prova disagio nel recitare la parte del cattivo individuale e sociale; ma soprattutto, ciò che oltremisura stupisce, un’acribia nello smontare le accuse nel dettaglio degna di un furiere contabile. Aleksić dimostra da subito la capacità di convertire in forza la situazione di partenza che lo relegherebbe in posizione di debolezza estrema. I media sono quasi tutti contro di lui e trovano modo di ripescare nel suo passato un dettaglio che, anche senza la catena di accuse di abusi sessuali, sarebbe sufficiente per un’operazione di character assassination: il rapporto stretto con Željko Ražnjatovic, meglio noto come “la tigre Arkan”, il criminale di guerra serbo che con la sua milizia ha compiuto gesta orrende durante la lunga fase di disgregazione dell’ex Jugoslavia.
L’atteggiamento sfidante contro i gruppi femministi
Aleksić cura la realizzazione del film sulle nozze del comandante Arkan con Svetlana Veličković (meglio nota come Ceca, cantante di turbo-folk molto popolare in patria), celebrate a Belgrado nel 1995. In quell’occasione Aleksić raccoglie 30 ore di girato, dalle quali confeziona 90 minuti di film che trasforma quelle nozze in un kolossal. È in questo clima di spregio pressoché unanime nei suoi confronti che Aleksić giunge al processo. Al suo fianco, oltre agli avvocati, è rimasta soltanto la moglie Biliana Mašić. E c’è chi opportunamente fa notare che questo isolamento, così come il sensazionalismo dei media nel raccontare la storia e nel tratteggiare negativamente la figura di Aleksić, potrebbero paradossalmente giocare a suo favore. Sicuramente non lo intimoriscono. Anzi, finiscono per gonfiarne l’ego. Per capire, basta guardare come sfila o si atteggia quando gravita intorno al palazzo di giustizia belgradese. Non degna di uno sguardo i gruppi femministi che espongono ampi striscioni contro di lui. Sbuffa ampie volute di fumo, durante le fasi di pausa, esibendo espressioni pensose e aspirando la sigaretta dal bocchino tenuto fra il pollice e il medio. Sorride nei corridoi mentre parla con gli avvocati. E soprattutto, in aula diventa il vero mattatore.

Il tribunale di trasforma in un one man show
Ben cinque udienze sono interamente occupate dall’autodifesa, dedicata al tentativo di smontare ogni dettaglio delle accuse che gli vengono mosse. Durante una di queste udienze il presidente della corte si vede costretto a richiamare l’imputato perché sta abusando nei tempi e nei toni. Lui incassa e prosegue, fra lo sconcerto delle accusatrici e di un’opinione pubblica che non si aspettava la tattica del contrattacco. L’avvocato Jugoslav Tintor, che pensava di metterlo in un angolo per conto delle sue denuncianti, si ritrova a dover dichiarare ai media che il processo si è ormai trasformato in una sorta di one man show. E proprio lui è il primo a fare le spese di questo ribaltamento dei ruoli. Durante un’udienza di fine novembre 2022, Tintor prova a chiedere a Aleksić se davvero egli possa fregiarsi del titolo di insegnante. E quello si rifiuta di rispondergli adducendo una motivazione spiazzante: da quando è iniziata la vicenda, l’avvocato Tintor ha parlato 72 volte con i media, ciò che a giudizio dell’imputato ha spostato la sua figura dall’aula giudiziaria all’arena dell’opinione pubblica. Sottinteso: adesso tocca a lui parlare liberamente, per restaurare un minimo di par condicio. L’attenzione di Aleksić per i numeri si rivela a ripetizione. Per esempio, l’imputato si scaglia contro il fatto che nell’atto d’accusa della procura ricorra 129 volte la formula “scuola di recitazione” a proposito di Stvar Srca, che invece secondo il suo fondatore sarebbe soltanto uno studio teatrale.

Vittime torturate dialetticamente dall’accusato
Il contrattacco si scatena anche sulle accusatrici, che grazie a quanto consentito dal diritto processuale serbo non vengono messe al riparo dal confronto faccia a faccia in aula con l’accusato. Nei Paesi dalla legislazione più avanzata in materia, questa è una circostanza non consentita, poiché la vittima di abusi sessuali o di stupro rimane in perenne stato di soggezione rispetto a chi li ha commessi, e dover riaffrontare faccia a faccia l’accusato è la ripetizione di un trauma. E invece nel caso del processo a Aleksić, che dal canto suo nega recisamente vi siano stati abusi o tanto meno stupri, la circostanza è consentita. Il risultato è che in aula si assiste a situazioni ai limiti della sopportazione, con l’accusatrice (e presunta vittima) che viene torturata dialetticamente dall’accusato e dal suo avvocato. In altri casi, riprendendo le dichiarazioni rese dalle denuncianti, l’imputato dice con sprezzo che sembrano dialoghi tratti da Sex and the city o da soap messicane, con lo sprezzo dell’intellettuale Est-europeo verso la cultura mainstream.
Un caso che rischia di diventare un disincentivo a denunciare
E già che c’è la butta sul terreno delle categorie psicanalitiche, sostenendo che tutte le accusatrici sono accomunate da un difficile rapporto con la figura paterna e che sono affette dalla “sindrome della falsa memoria”, che come egli stessi dice in aula «secondo studi condotti negli Usa è responsabile del 75 per cento di condanne comminate a innocenti». Sui media si accende il dibattito sul rischio che questo processo crei nelle vittime di violenze e abusi un disincentivo a denunciare. Ma ciò che più preoccupa è vedere come l’aula di tribunale si sia trasformata, per l’imputato, nel palcoscenico di un’esibizione voluttuosa, autocompiaciuta. Dalla quale, vista la posizione di partenza totalmente negativa, ha soltanto da trarre benefici. E già che c’è annuncia querele a raffica nei confronti di testate giornalistiche e opinionisti da cui si ritiene leso nella reputazione. Questa storia sarà ancora parecchio lunga da raccontare.