Ci sono i sondaggi – e gli ultimi rivelano un calo, seppure minimo, di Fratelli d’Italia, mentre il Pd e persino la Lega risalgono -, ma adesso per Giorgia Meloni c’è anche la sfida aperta e tutta al femminile con Elly Schlein, la leader del primo partito d’opposizione. Senza contare poi la costante necessità di non scoprirsi troppo rispetto alla concorrenza di Matteo Salvini su un elettorato storico che in parte FdI e Lega condividono. Ed ecco che come Dottor Jekyll e Mister Hyde, alla premier prudente e ‘draghiana’ (soprattutto sui conti) si alterna quella sovranista, in perfetto stile «la pacchia è finita». Anzi, ultimamente è proprio Giorgia 2 ad aver preso il sopravvento. Perché il pragmatismo, dietro il quale si scuda da quando è approdata a Palazzo Chigi e ha toccato con mano il difficile mestiere di governare, rischia di annacquare la sua identità. Ma anche perché – è troppo intelligente per non comprenderlo -, prendersela con la «sfortuna», come ha fatto di recente abbandonandosi a una riflessione sui problemi che si susseguono in questo frangente storico, non sarebbe una narrazione che paga. Meglio, dunque, ributtarsi a destra e alzare la voce in Europa per difendere la «nazione».

Case green e Mes: Meloni torna a sfidare l’Ue
Il ‘premier time’ di mercoledì, il primo da quando è a Palazzo Chigi, è stata l’occasione perfetta per un secco uno-due contro l’Ue. Tanto per cominciare sulla direttiva in materia di case green, tacciando la scelta del Parlamento europeo come «irragionevole e mossa da un approccio ideologico». Con incluso avvertimento finale in salsa patriottica: l’esecutivo continuerà «a battersi per difendere gli interessi dei cittadini e della nazione». Ma il pugno duro Meloni lo ha sfoderato soprattutto contro il Mes. Sull’annosa questione della ratifica del trattato istitutivo del fondo salva Stati, l’esecutivo targato Meloni ha preso tempo sin dall’inizio (lo stesso ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si era messo in stand by aspettando le mosse della Germania). Mercoledì invece la premier ha scritto la parola fine su questo capitolo: «Con me al governo l’Italia non accederà mai al Mes». E poi ancora: «Il governo ha ricevuto dal Parlamento il mandato a non ratificare la riforma del Mes in assenza di un quadro chiaro regolatorio europeo in materia di governance, di patto stabilità ma anche in materia bancaria». Insomma, due messaggi all’Ue e poco concilianti. Il primo, infatti, è di chiusura totale, mentre il secondo lascia presagire un più diplomatico do ut des. Che, comunque, rientra nella postura e narrazione care ai Fratelli d’Italia del mai in Europa col cappello in mano.
L’affronto ai figli di coppie omogenitoriali
Che la premier abbia preso coraggio, complice di certo una maggiore confidenza con la macchina governativa, lo dimostra pure il recente stop al regolamento Ue per il riconoscimento dei diritti dei figli di coppie gay, il cosiddetto certificato di filiazione. Il no a Bruxelles, infatti, è arrivato il 14 marzo scorso col voto del centrodestra a una risoluzione presentata dal senatore FdI Giulio Terzi di Sant’Agata in commissione Politiche europee. Una questione che va letta sicuramente in chiave interna, oltre che in quella del perenne confronto-scontro con l’Ue. Sì, perché si tratta di una presa di posizione che consente al partito di maggioranza di battere su un tema sensibile per il suo elettorato e cioè il cosiddetto utero in affitto. Oltre che, naturalmente, non lasciare praterie alla Lega. Il senatore del Carroccio Claudio Borghi, non a caso, si era fatto trovare pronto: «Volendo, qualche ‘europazzia’ può essere fermata muovendosi per tempo», aveva infatti commentato a caldo nel corso di una diretta Twitter.

Il no a salario minimo e la battaglia sui balneari
I no all’Europa però non finiscono qui. Manca all’appello per esempio lo stop italiano alle auto a benzina e diesel a partire dal 2035, arrivato ai primi di marzo. In realtà a gettare in un limbo il regolamento Ue non è stato solo il nostro Paese, però Meloni ha voluto fissare la sua bandierina, parlando di «successo italiano»: «Giusto puntare a zero emissioni di CO2 nel minor tempo possibile», ha scandito, «ma va lasciata agli Stati la libertà di percorrere la strada che reputano più efficace e sostenibile». A dirla tutta, anche se è vero che da Bruxelles arriva solo una raccomandazione, pure sul salario minimo legale l’Italia a trazione meloniana rimane ferma su una linea di totale contrarietà, come la premier stessa ha avuto modo di spiegare in Aula alla segretaria dem Schlein. Tacendo del sempreverde tema migratorio, quale migliore impronta sovranista, infine, della battaglia sui balneari? Sebbene, in questo caso, l’inquilina di Palazzo Chigi avrebbe fatto volentieri a meno di contrariare l’Europa. In nome del pragmatismo di governo, avrebbe accettato persino le critiche che le sarebbero piovute addosso per il cambio di linea rispetto alle sue storiche battaglie contro la direttiva Bolkestein. Ma il pressing degli alleati leghisti e azzurri non le ha lasciato alternativa. E così, nonostante più subita che voluta, dopo la proroga delle concessioni, è stata inevitabile la collisione con la normativa europea. Adesso Palazzo Chigi dovrà di nuovo intervenire sulla materia, anche a valle del richiamo del presidente della Repubblica.
Il dossier sulle concessioni portuali potrebbe accendere un nuovo scontro
Un nuovo scontro, invece, già si profila all’orizzonte visto che nel mirino di Bruxelles è finito il dossier sulle concessioni portuali. Non una roba di poco conto, dal momento che potrebbe compromettere la terza rata di fondi del Pnrr. Per l’Europa il regolamento approvato dall’Italia nel dicembre scorso non rende abbastanza competitivo il sistema portuale. Sembra quasi un revival della vicenda delle concessioni balneari. Chissà se sulle banchine dei porti si consumerà lo stesso tormentone che abbiamo visto sulle spiagge. Ma in ogni caso sulla rotta Roma-Bruxelles le onde restano alte.