Mettiamo il caso che nel mio Paese ci sia un leader muscolare, dalle tendenze autoritarie e incline alla demagogia e che io voglia instillare nell’opinione pubblica il fondato sospetto che si tratti di un pericoloso autocrate, brillo, se non ubriaco, di potere. Tiro fuori vecchi tweet in cui inneggiava a qualche dittatore che ora rinnega? Rispolvero foto giovanili in cui si sbraccia in manifestazioni pro qualcosa che i suoi attuali alleati di governo vedono come il fumo negli occhi? Gli rinfaccio slogan imbarazzanti lanciati da qualche palco quando era a caccia di consensi? Armi spuntate, inutili, consumate, come si può vedere dai risultati ottenuti da chi ha cercato di usarle contro questo o quello, a destra o a sinistra: zero spaccato. Anche le contestazioni pubbliche non servono a nulla: i potenti di oggi sono abbastanza accorti da rintuzzarle in diretta, anzi, di volgerle a proprio favore. Quanto agli attacchi sui social, si rischia di più a esserne gli autori che i bersagli, i quali non solo non rispondono nel merito ma si atteggiano a vittime di cyberbullismo e magari denunciano. Oggi c’è solo un metodo brevettato e collaudato per mettere in serio imbarazzo un leader in pubblico: salutarlo con un coro di bambini esultanti. Il suo nome pronunciato da decine di piccole voci all’unisono produce un immediato effetto cringe in grado di collocare l’augusto personaggio in una spiacevole terra di nessuno fra il ridicolo e l’inquietante, e altresì di evocare all’istante scenari che nel 2023, per fortuna, fanno arricciare il naso perfino a chi di quel leader è simpatizzante. E, last but not least, portano sfiga.
Quel coro di ugole acerbe fa subito festa del Balilla
Per questo si può ipotizzare che dietro il coro di bambini della scuola primaria di Ponte Galeria che ieri ha scandito «Giorgia! Meloni! Giorgia! Meloni!» durante la visita della premier al villaggio dell’Aeronautica non ci fosse un viscido corifeo filo-governativo o un insegnante di musica italofraterno accecato dal culto della personalità. Anche perché la scuola pubblica non è la Rai, non cambia casacca a ogni cambio del cast a Palazzo Chigi, anzi, di solito non gliene sta bene nessuno; e supporre che Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione del governo Meloni, sia popolare fra i dirigenti scolastici mi sembra appena meno credibile della spontaneità della polifonia degli scolaretti. No, era quasi sicuramente un machiavellico sabotaggio realizzato attraverso i bambini, anche per non lasciare alla destra il monopolio della strumentalizzazione dell’infanzia per i propri fini (punire le coppie gay, umiliare le mamme rom, e siamo solo all’inizio). Il nome della presidente scandito da un coro di ugole acerbe, ed è subito festa del Balilla, Trionfo della volontà, adunata dei Pionieri della Ddr, compleanno di Kim Jong-un. Nessuno ovviamente pensa a una genuina improvvisazione da parte dei piccoli fan: tutti immaginano sia un omaggio commissionato/suggerito dallo staff della premier, oppure, peggio ancora, tributato da una scuola lecchina e opportunista per ingraziarsi Evita Melon. Che, conscia del pericolo, ai suoi piccoli laudatori ha detto scherzosamente «Vi assumo», che è come dire: «A regazzì, anche meno, se no sembra che ve pago».
Renzi e il blues dei bambini di Siracusa
Perfino lei sa che ormai con il coro di scolaretti non si vince, nemmeno a Sanremo: il pur applaudito Mr. Rain alla fine è arrivato secondo. Oppure si perde a stretto giro, com’è successo a Matteo Renzi, pure lui celebrato nel 2014 a Siracusa da un’ensemble di alunni con un blues laudatorio che musicalmente ricordava Bonnie and Clyde: «Alziam la testa – battiam le mani – e tutti insieme salutiamo il presidente Renzi – dovunque vai – non ti scordare – le speranze e i sogni che ti affidiamo a ritmo di blues». Siamo certi che Renzi non se li è scordati i sogni e le speranze dei bambini siracusani, anzi, ci pensa spesso a bordo dell’aereo che lo porta in Arabia Saudita, l’unico posto dove ancora qualcuno gli dà retta.
Salvini maestro di sovranismo in tv
Matteo Salvini finora non ha avuto bisogno di cori infantili per non sembrare affidabile al cento per cento sotto il profilo democratico: fa tutto da solo. Ma nel 2018 anche lui non ha resistito alla tentazione del «lasciate che i bimbi vengano a me», nel programma di RaiTre #AllaLavagna, in cui l’allora ministro dell’Interno raccontava il sovranismo a una ventina di preadolescenti – più che sinite parvulos era sfinite parvulos. Pochi mesi dopo Salvini non era più ministro. La nemesi però non è stata irrimediabile, tanto che oggi è di nuovo in cattedra, anzi, su una poltrona. Forse perché i bambini di #AllaLavagna non avevano cantato?
