Il governo Meloni alla prova del dossier Cina
In campagna elettorale Meloni si era detta contro la Nuova via della Seta e a favore di Taiwan. Ora che è al governo la partita si fa più difficile. L'interscambio con Pechino è in crescita e la ripresa, se non la tenuta, di molte aziende italiane, dipende dal gigante asiatico. Intestarsi una crociata anti-cinese potrebbe essere un boomerang.
«Se dovessi firmare il rinnovo di quel memorandum domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche». Due giorni prima delle elezioni politiche italiane, lo scorso 23 settembre, Giorgia Meloni rispondeva così a chi le chiedeva come avrebbe gestito il protocollo d’intesa con la Cina sulla Belt and Road Initiative (BRI), nel caso in cui si fosse ritrovata a vestire i panni di premier. La leader di Fratelli d’Italia, nella stessa intervista concessa all’agenzia taiwanese Cna definiva addirittura un «grosso errore» l’adesione dell’Italia alla nuova Via della Seta cinese siglata dal governo gialloverde. Bollava inoltre come «inaccettabili» le minacce della Cina su Taiwan e precisava che, con un governo di centrodestra in carica, l’isola sarebbe diventata una «questione fondamentale per l’Italia».
Dalla BRI a Taiwan fino a Hong Kong e allo scambio Italia-Cina: i dossier sul tavolo di Meloni
Quel momento è arrivato: Meloni da premier è ora chiamata a maneggiare con cura il complicatissimo dossier cinese. Che, si badi bene, non si limita soltanto alla BRI e alla questione taiwanese. Ma comprende anche il macrotema dello scambio commerciale tra Italia e Cina e il nodo delle alleanze geopolitiche, compresi i dossier Xinjiang, Hong Kong e Tibet. A questo proposito come non ricordare lo scambio social tra Meloni e il Dalai Lama. «Vorrei dire che mi fa piacere che il nuovo presidente del Consiglio italiano sia una donna», aveva dichiarato il leader tibetano in esilio sul proprio sito, «perché credo, e ci sono prove scientifiche che lo dimostrano, che le donne siano più empatiche e sensibili ai sentimenti degli altri. Di conseguenza, mostrano maggiore cordialità e preoccupazione per il benessere degli altri». Immediata la risposta di Meloni: «Sono onorata del messaggio di affetto che il Dalai Lama ha voluto trasmettere a me e al governo. Colgo questa occasione per rinnovargli il nostro sentimento di amicizia». Un messaggio, nemmeno troppo celato, a Pechino.
Sono onorata del messaggio di affetto che il @DalaiLama ha voluto trasmettere a me e al Governo. Colgo questa occasione per rinnovargli il nostro sentimento di amicizia. pic.twitter.com/luMvFivWkW
— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) October 23, 2022
Sulla Cina Meloni seguirà la linea tracciata da Mario Draghi?
Come ha lasciato trasparire, nemmeno troppo in filigrana, in campagna elettorale, nei confronti della Cina Meloni e il suo governo intendono proseguire sulla via tracciata da Mario Draghi: una chiara posizione su Taiwan, a sostegno di Taipei, in aggiunta allo smarcamento dalla dalla Via della Seta. Ora che siede a Palazzo Chigi la linea rimarrà la stessa oppure, come è più probabile, le sparate a zero di Meloni erano soltanto le classiche, strategiche, dichiarazioni pre voto, in questo caso utili per garantirsi la benedizione di Washington? È difficile dare una risposta secca. Certo è che il rebus cinese presenta nodi spinosi con i quali è facile ferirsi.

Il commercio Italia-Cina tra gennaio e agosto è cresciuto di 70 milioni di dollari
Chiudere le porte in faccia a Pechino, di botto e senza prima avere un salvagente, potrebbe arrecare seri danni all’economia italiana. Il motivo è scritto, nero su bianco, nei numeri che raccontano l’andamento del commercio tra Roma e Pechino. Secondo il ministero cinese del Commercio, tra gennaio e agosto di quest’anno, ovvero in un periodo a dir poco turbolento a causa della guerra in Ucraina e della crisi energetica, gli investimenti cinesi diretti non finanziari in Italia sono aumentati di quasi 70 milioni di dollari dopo il record di 75 miliardi di dollari del 2021. Nei primi tre trimestri del 2022, inoltre, il volume degli scambi ha toccato quota 60,5 miliardi di dollari, facendo segnare un aumento del +13,3 per cento su base annua. L’Italia rappresenta il quarto partner commerciale del Dragone all’interno dell’Unione europea. Non solo: il gigante asiatico consuma poco meno di 40 miliardi di dollari di prodotti made in Italy. È facile capire perché la ripresa – in certi settori la tenuta – dell’economia italiana passi anche dal mantenere un buon rapporto con la Cina. Sia chiaro: l’Italia è saldamente un membro della Nato, è fedele ai principi dell’Alleanza Atlantica e dell’europeismo. I valori di Roma, sia politici che culturali, sono ben distanti da quelli incarnati dalla Repubblica Popolare Cinese. Eppure, come ha recentemente dimostrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz è possibile dialogare con la Cina tracciando delle linee rosse geopolitiche invalicabili. Da questo punto di vista l’approccio di Berlino, seppur improntato a un nuovo sovranismo, si differenzia dal modus operandi tratteggiato da Meloni in campagna elettorale: gli affari da una parte, la geopolitica, fin quanto possibile, dall’altra.
L’arma del golden power e il rischio boomerang
Il governo di centrodestra dovrà dimostrarsi abile anche nel non minare gli affari tra le imprese italiane, soprattutto quelle del Nord e quelle attive nell’automotive legate a doppia mandata con la Germania, e la Cina, onde evitare pericolosi ritorni di fiamma. Allo stesso tempo, Meloni è chiamata a tutelare eventuali scalate ostili in campi sensibili, dai semiconduttori alla robotica, e monitorare le infrastrutture, comprese quelle digitali nelle quali si inserisce il tema del 5G. Lo strumento del golden power, impiegato cinque volte negli ultimi due anni per bloccare investimenti cinesi in Italia, dovrà continuare a essere utilizzato in modo parsimonioso e non come una clava per colpire a casaccio, facendo leva sulla propaganda.

La presenza cinese in Italia: dalle reti ai porti
In ogni caso, se il futuro delle relazioni tra Italia e Cina passa anche dalla conferma o meno del Memorandum of Understanding sulla BRI, il presente passa attraverso accordi fatti e finiti. Vale la pena accendere i riflettori sulla State Grid Corporation (SGC), colosso statale di servizi elettrici e la più grande società di servizi pubblici al mondo, che ha acquisito azioni e potere in molteplici Stati europei ed extraeuropei, con l’intenzione di crescere economicamente ma anche di fungere come veicolo per la BRI. In Italia SGC controlla il 35 per cento di Cdp Reti, e cioè nella società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti che gestisce investimenti partecipativi in Snam, Italgas e Terna per sostenere lo sviluppo delle infrastrutture strategiche italiane nei settori del gas e dell’energia elettrica. Per quanto riguarda i porti, la Cina è presente in Italia, dal 2016, a Vado Ligure. Il colosso cinese Cosco ha messo sul tavolo 53 milioni di euro per assumere il 40 per cento dello scalo, mentre Qingdao 15,5 milioni per il 9,9 per cento. Nel 2019 Pechino ha ottenuto anche la concessione demaniale della ex Belleli, una delle aree più grandi del porto di Taranto, finita al Ferretti Group, all’85 per cento controllato dai cinesi di Weichai Group. Sfumata, al momento, l’intesa per una compartecipazione cinese diretta nel porto di Trieste su cui aveva detto la sua il ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. «Non ci consegneremo nelle mani della Cina», aveva dichiarato a proposito dell’ingresso di Cosco in uno dei terminal del Porto di Amburgo che a sua volta controlla il 51 per cento di una delle piattaforme logistiche di Trieste. Insomma, è su tutto questo che Meloni dovrà essere tanto pragmatica quanto equilibrista. Dimostrando di sapersi allineare alla sicurezza internazionale senza però trasformarsi nella testa d’ariete di un’ipotetica crociata economica occidentale contro la Cina. E senza, soprattutto, danneggiare l’economia italiana.