Il destino di Brad Mehldau – forse la sua vocazione – è disorientare il popolo del jazz e sedurre i fedeli della cosiddetta classica. Nulla di nuovo: da almeno un secolo – ed è una storia che ha avuto autentici momenti di gloria – la tradizione musicale africana-americana e quella storica europea si attraggono, si incrociano e si contaminano. Tuttavia, anche se appartiene e anagraficamente discende alla gloriosa stirpe dei Keith Jarrett e degli Uri Caine, dei Chick Corea e dei Michel Petrucciani, Mehldau ha saputo costruire una storia a parte. Singolare e originale, baciata da indubitabile successo eppure sofisticata, non poco appartata, silenziosa e colta. Come osserva Riccardo Brazzale nella monumentale Storia del jazz scritta a sei mani con Luigi Onori e Maurizio Franco, uscita da Hoepli alla fine dell’anno scorso, «Mehldau non fa avanguardia nel senso di una musica il cui linguaggio esce dai codici noti.
Il tour italiano, da solo o col trio, che comincia da Spoleto
Ciò non toglie che, molto più di altri, sa usare il semplice e il complesso, e soprattutto ha una conoscenza e una consapevolezza della tradizione del jazz nella sua totalità, che lo rende capace di inglobare e travalicare le differenze dovuto all’estrazione etnica». Così, l’ampio tour che il pianista di Jacksonville, Florida, si appresta a compiere nella Penisola ha tutte le carte in regola per essere considerato fra i maggiori eventi dell’estate musicale italiana e fotografa bene la complessità sofisticata di questo musicista. La maggior parte delle serate lo vedrà di scena insieme al suo trio, nel quale lo affiancano il bassista Larry Grenadier e il batterista Jeff Ballard: appuntamenti, fra gli altri, nella storica cornice festivaliera di Umbria Jazz, (14 luglio), ma anche a Carpi, a Grado e a Monforte d’Alba. Quello del trio è l’ambito più “rassicurante” di Mehldau, jazzisticamente “socievole” nell’accoglimento della tradizione cosiddetta mainstream, elaborata con gusto raffinato ma punti di riferimento in certo modo sempre riconoscibili. Eppure, non so quanti si siano soffermati a riflettere sul titolo che il pianista Usa ha dato all’ormai copiosa serie di incisioni realizzate in quest’ambito. Per uno come lui, The Art Of The Trio non è solo un modo di dire e neppure un semplice tributo alla sua formazione classica. Non si può dubitare che esista una voluta allusione a una delle opere più complesse di Johann Sebastian Bach, L’Arte della Fuga, “opus ultimum” e incompiuto del musicista tedesco.
L’ispirazione e il costante riferimento a Bach
Non può essere solo una formula per un musicista che tre anni fa ha realizzato – come solista – un album rivelatorio intitolato After Bach, nel quale alcuni Preludi e alcune Fughe dal Clavicembalo ben temperato sono interpolati da composizioni originali, intitolate Rondò, Pastorale oppure Ostinato, ma anche, in piena soggettività splendidamente bachiana, Flux o Dream. E dunque, i veri eventi del tour italiano di Mehldau promettono di essere i due concerti di cui sarà protagonista al pianoforte solo, entrambi all’aperto, il primo domenica 4 luglio al Festival di Spoleto, in quello spazio ormai storico della musica in Italia che è piazza Duomo, il secondo due sere più tardi a Vicenza, in una sede del tutto nuova per musica di questo tipo come il Parco Querini, con le sue statue settecentesche e il tempietto neoclassico di ispirazione canoviana. Solo davanti alla tastiera, Mehldau era già stato nel palladiano teatro Olimpico quindici anni fa, maggio 2006, quando doveva ancora compiere 36 anni. Allora, con una sorta di compunto divismo peraltro equilibrata dalla sua pensierosità, aveva chiesto e ottenuto che i fotografi restassero fuori. E chissà se era al corrente che in quel luogo, forse soltanto Arturo Benedetti Michelangeli aveva fatto valere – peraltro in epoca ben diversa – analogo disinteresse.
Suite: April 2020, dodici pezzi scritti durante il lockdown
Ma resta il fatto che ogni recital del pianista americano è una sorta di show all’incontrario, nel quale il percorso musicale rappresenta da un lato la manifestazione sonora del suo pensiero creativo e dall’altro un viaggio dentro al mondo sonoro della tastiera. Nel quale la comunicazione creativa, così di moda e necessaria oggi, va trovata attivamente da parte dell’ascoltatore e non è mai “servita” banalmente dal compositore. È chiaro che i catastrofici eventi globali dell’ultimo anno e mezzo non potranno non lasciare il segno anche nelle prossime esecuzioni dal vivo alla tastiera. E basti por mente al fatto che un anno fa Mehldau licenziava per la Nonesuch, dopo averlo registrato durante il lockdown ad Amsterdam, un disco intitolato Suite: April 2020. Allusivo fin da termine barocco scelto per il titolo; spiazzante nel suo essere basato su dodici brevi pezzi di toccante introspezione. Dodici, il “numero magico” di molta della modernità in musica, da Schoenberg in avanti.
Una costante ricerca tra le forme classiche e l’armonia del jazz
In realtà, qui come sempre i percorsi armonici di Mehldau sembrano funzione di una fortissima tensione per il ragionamento sulla forma. Dentro ad esso si combinano la raffinata tecnica improvvisatoria (che naturalmente dal vivo diventa strutturale) e il gusto della scrittura in termini di strutture storiche. L’ultimo disco, uscito l’11 giugno scorso, è da questo punto di vista ancora più esemplare. Sintomatico, verrebbe da dire. Variations on a Melancholy Theme (Nonesuch Records) è un Tema con Variazioni nella più stretta tradizione classico-romantica. Dodici brani (anche qui!) seguiti da una Cadenza e da un Postludio e suggellati da un Encore (cioè un bis), che s’intitola Variations “X” & “Y”. Trascritta per orchestra e pianoforte su commissione della Orpheus Chamber Orchestra (questa è la versione registrata), originariamente la composizione era stata scritta per il pianista classico russo Kirill Gerstein. La ricerca di una combinazione tra le forme classiche e l’armonia jazz, ancora una volta, è dominante. Mehldau l’ha spiegata così: «La immagino come se Brahms svegliandosi una mattina avesse scoperto di avere il blues». Il risultato è un linguaggio che amplifica potentemente la soggettività del suo autore. Molti sono abituati a chiamarlo classico. In fondo, e soprattutto, è assoluto.