Io tra la morte di Martin Amis e la hostess arrestata a Gedda: il racconto della settimana
La sera che è morto Martin Amis giravo in pigiama per casa con ai piedi il nuovo paio di Jordan e avevo appena comprato gli ultimi vinili dei Sault. La prima volta che mi imbattei in lui fu nell'estate del 2014 a Camogli. Entrai per caso in una libreria attirato da un saggio con la copertina bianca e una serie di matite e penne colorate...Il racconto della settimana.
La sera che è morto Martin Amis quasi tutti quelli che conoscevo erano al Salone del Libro di Torino, alla Biennale di Venezia o al Festival del Cinema di Cannes. Seduti al tavolo della cucina, a casa nostra a Milano, con Ofelia ci dividevamo una catalana di gamberi e avevamo appena stappato una bottiglia di champagne che avevamo lì da un po’ e che non ci decidevamo a bere. Una delle 1500 pregiatissime bottiglie prodotte annualmente della piccola casa Alexandre Filaine di Fabrice Gass, fino a pochi anni fa vignaiolo di lunga data presso la celebre maison Bollinger e autentico personaggio da film di cui entrambi ci siamo perdutamente innamorati. Il suo allevamento è biologico, la fermentazione viene fatta con lieviti indigeni in botti molto vecchie di Bollinger che risalgono al 1937 e le bottiglie vengono crivellate e sboccate una a una manualmente. Di Fabrice si dice che la maggior parte delle bottiglie che produce vengano bevute da lui e dai suoi amici nella piccola tenuta dove vive nel piccolo villaggio di Damery, sul pendio della Grand Valée de la Marne, e che nonostante la tecnologia nel tempo abbia fatto passi da gigante si ostini comunque a voler fare lo champagne con metodi antichi di oltre 100 anni.
La sera che è morto Martin Amis avevo appena comprato online gli ultimi vinili dei Sault, una delle mie band preferite, rilasciato in free download il novembre scorso sul loro sito per soli cinque giorni. Un mix pazzesco di soul, r&b, funk, elettronica e afrobeat al quale sono state aggiunte sonorità rock vintage degli Anni 70. Un’autentica bomba. L’ennesima, di questo misterioso collettivo londinese che dona i guadagni prodotti dalle vendite dei dischi in beneficenza e che non fa auto-promozione, se non sporadicamente attraverso i social.
La sera che è morto Martin Amis giravo con la giacca del pigiama aperta per casa, ciondolando con un bicchiere di champagne in mano, in boxer e con ai piedi il nuovo paio di Jordan che avevo comprato nel pomeriggio allo store Nike di Corso Vittorio Emanuele. Una perfetta riedizione del primo modello del 1983 con i colori dei Chicago Bulls con la quale la Nike convinse MJ a firmare il contratto che cambiò per sempre le regole delle sponsorizzazioni degli atleti nello sport. La sera che è morto Martin Amis ricordo, inoltre, che sul mio comodino di fianco all’ultimo libro di Peter Cameron, edito da Adelphi con una copertina di un blu bellissimo, campeggiava anche una confezione di un gel lubrificante alla ciliegia adatto a del sesso vaginale, orale e anale, ancora sigillato.
«Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno e poi dicono niente, non è niente, solo un sogno triste». Scriveva così Martin Amis, nell’incipit di uno dei suoi romanzi più riusciti: L’informazione. Un libro simile a certe canzoni di Paul Weller, tipo Wild Wood per esempio, che racconta di fallimenti, frustrazioni e più in generale di un’infanzia molto poco felice. Come ho letto da qualche parte L’informazione più che un romanzo è una specie di duello, «un duello all’ultimo sangue con tutto, e con tutti»: partendo da suo padre, continuando con la scrittura (con ciò che significa essere uno scrittore) e, concludendo, mostrando un assoluto disprezzo nei riguardi di chi ha più successo di te. Come non amare, quindi, un tizio che scrive cose del genere? Si può tranquillamente dire che Amis è stato una specie di Mick Jagger in forma letteraria, in altre parole una pop star. Un inglese di Oxford che oltre a essere stato uno degli scrittori più influenti della sua generazione era anche un sagace critico letterario e uno dei componenti di punta di un irripetibile gruppo di romanzieri, tutti amici tra loro, tra cui Rushdie, McEwan e Julian Barnes, che hanno definito la scena letteraria britannica degli Anni 80. «Sono stato incredibilmente fortunato», ha detto una volta (il padre, Kingsley, ottiene il Booker Prize nel 1986, è nominato cavaliere nel 1990; la matrigna è la scrittrice Elizabeth Jane Howard, gli amici di famiglia sono personalità come Iris Murdoch e Philip Larkin), scrivere per lui «era un po’ come prendere il controllo del pub di famiglia». Look byroniano, stivali col tacco, dentatura impossibile, più che uno scrittore, a guardarlo, sembrava un cantante rock, di quelli Anni 60, tutti labbra imbronciate e pallore anemico. Il primo libro di Martin Amis che mi sono ritrovato tra le mani non è stato un romanzo bensì un saggio, La guerra contro i cliché, di cui Marco Missiroli riassume perfettamente l’essenza in due righe apparse su Minima & Moralia, «un testo che raccoglie il giudizio, le ironie, le avventure di questo autore verso i suoi maestri: Nabokov, Mailer, Bellow, Capote, Joyce, Roth e altri bellimbusti».
Come ho letto da qualche parte L’informazione più che un romanzo è «un duello all’ultimo sangue con tutto, e con tutti»: partendo da suo padre, continuando con la scrittura, ciò che significa essere scrittore e, concludendo, mostrando un assoluto disprezzo nei riguardi di chi ha più successo di te. Come non amare, quindi, un tizio che scrive cose del genere? Si può tranquillamente dire che Amis è stato una specie di Mick Jagger in forma letteraria, in altre parole una pop star
Nell’estate del 2014 ospiti con Ofelia a casa di amici a Sestri Levante, attendevamo di imbarcarci qualche giorno più tardi a Rosignano e partire per trascorrere il resto delle vacanze in barca a vela tra Capraia e il nord della Corsica in compagnia di Bob, sua sorella Cleopatra, suo fratello Roffredo e la sua fidanzata dell’epoca. Erano giorni terribilmente caldi, inquieti e tremendamente noiosi che più che in spiaggia trascorrevamo a leggere o a fare l’amore nella mansarda che Violetta, la compagna miliardaria del drugo Fede, aveva messo a nostra disposizione. Loro oltretutto avevano avuto Lea da neanche un anno e i ritmi della vacanza erano più che altro dettati da nanne, pappe, cacche e altre sciccherie del genere. Di quel periodo distorto, che oggi mi appare remoto e quasi irriconoscibile, non ricordo granché, oltre al fatto che mi ero fatto crescere la barba e che ero sempre di cattivo umore. Poi un pomeriggio, in gita a Camogli, entrai per caso in una libreria sulla passeggiata a mare e gironzolando tra gli scaffali mi imbattei in Amis e nel suo saggio letterario dalla copertina bianca con sopra raffigurate una serie di matite e penne colorate che catturarono immediatamente la mia attenzione. Il resto lo fece l’inizio della prefazione: «All’epoca per mantenermi lavoravo nella redazione del Times Literary Supplement. Già allora avvertivo un netto contrasto quando mi presentavo alle riunioni di redazione con i capelli lunghi fino alle spalle, una camicia floreale e stivali tricolore alti fino al ginocchio. La mia vita privata era alquanto bohémien, hippy ed edonistica. Diciamo pure tranquillamente debosciata. Ma in fatto di critica letteraria avevo principî morali ferrei. Non facevo che leggere libri di critica: mi portavo dietro Edmund Wilson e William Empson praticamente ovunque: nella vasca da bagno, in metropolitana. Prendevo questa faccenda molto sul serio». Dovevo assolutamente avere quel libro.

C’è stato un periodo nella mia vita, intorno ai 23, 24 anni, in cui anch’io come Martin Amis volevo fare lo scrittore o al massimo il critico letterario. Mi ero iscritto alla facoltà di Lettere della Statale, giravo con uno zaino dal quale fuoriuscivano i libri di Raboni o di Guy Debord e tutti i giorni, in qualsiasi condizione, appuntavo i miei pensieri su un taccuino moleskine dal quale non mi separavo mai. Amis descrive in maniera particolarmente limpida e cristallina le motivazioni che mi portarono a scegliere di intraprendere questa strada nel suo ultimo libro, uscito in Italia in maniera particolarmente tempestiva questa settimana a pochi giorni di distanza dalla sua morte, che si intitola La storia da dentro, una specie di maxi Tale di oltre 700 pagine all’interno del quale racconta romanzando la propria vita, gli amori, gli scrittori, gli amici e molte altre cose. «Gli scrittori sono adolescenti in stallo, ma felici di esserlo. Se ne stanno volentieri agli arresti domiciliari», scrive nelle prime pagine. Già, adolescenti in stallo, a 23 anni come a 43. E che cazzo. Però sempre pronti a raccontare qualcosa a qualcuno: una storia che li riguarda o che hanno sentito da qualche parte o che si sono inventati di sana pianta. Peccato però che di Martin Amis non ce ne siano molti in giro, e basterebbe venire al bar dove lavoro e trascorrere una serata di fianco a me per accorgersene e osservarli da vicino gli scrittori che frequentano i bar: noiosi, boriosi, pieni di sé, tronfi delle loro letture, con l’aria metà da avventurieri e metà da intellettuali, che li prenderesti a rasoiate, a volte, per ristabilire le gerarchie. E allora di colpo ti passa la voglia di diventare scrittore, per non rischiare di essere come loro. Ma queste sono cose che noti crescendo, a 23 anni essenzialmente vuoi solo scopare e strafarti e possibilmente raccontarlo a tutti. Di questo infatti erano intrisi i miei taccuini al tempo, suggestionati da menti brillanti e affilate come quelle di Ian Mc Ewan, ad esempio, di cui una volta comprai un libro di racconti giovanili all’aeroporto di Londra, intitolato First Love, Last Rites, solo perché mi piaceva la copertina anche se non parlavo una parola di inglese. L’inglese invece lo parlava molto bene la bionda, insieme ad altre tre/quattro lingue. La storia della hostess di 23 anni, detenuta a Gedda dal 4 maggio scorso per possesso di droga che insieme alla morte di Martin Amis è stata la notizia che più mi ha colpito questa settimana me l’ha fatta prepotentemente ritornare in mente. Faceva la hostess la bionda, il periodo in cui uscivamo assieme, e poteva essere la fine del 2007 o l’inizio del 2009. Anche se non siamo mai stati insieme veramente ricordo con precisione il giorno in cui mi cacciò urlando da casa sua, dall’appartamento all’ultimo piano di Palazzo Vittoria affacciato su Piazza Grandi. Lo ricordo perfettamente perché quello stesso pomeriggio avevo avuto il mio primo attacco di panico.

Milano 27 Maggio 2008. Riesco a stento a contenere la crisi respiratoria. Quasi svengo su una panca in Piazza Tricolore. A un certo punto mi trascino con la bici a braccio in Corso Concordia. Non ho credito sul cellulare così raggiungo con fatica un telefono pubblico in Corso Indipendenza e con il cuore che mi esce dal petto provo a chiamare DFA. Lascio squillare 15 volte ma non risponde nessuno. Mi metto e mi tolgo gli occhiali in continuazione. Penso di morire. Vagabondo per la zona fino a quando l’immagine che colgo dietro lo specchio di un portone a vetri in via Goldoni mi spinge a tornare di corsa verso casa. Ho gli occhiali da sole, e il broncio, intorno a me il nulla. Panico. Qualche ora più tardi sono davanti all’imponente palazzo patrizio in Piazza Grandi inaugurato nel 1936 in pieno regime fascista dove abita la bionda. L’ascensore schizza su fino all’ultimo piano, la porta dell’attico è aperta. La bionda seduta in soggiorno davanti a un computer, con un top di Gap e delle cuffie da deejay, sta osservando un’immagine che lampeggia sullo schermo.
Faceva la hostess la bionda, il periodo in cui uscivamo assieme, e poteva essere la fine del 2007 o l’inizio del 2009. Anche se non siamo mai stati insieme veramente ricordo con precisione il giorno in cui mi cacciò urlando da casa sua, dall’appartamento all’ultimo piano di Palazzo Vittoria affacciato su Piazza Grandi. Lo ricordo perfettamente perché quello stesso pomeriggio avevo avuto il mio primo attacco di panico
«Sei in forma, stasera», dico io, sincero, cercando di sorridere nel caso qualcuno ci stesse guardando. «Andre, per favore», dice lei con disprezzo, furibonda, togliendosi le cuffie da deejay, «vattene!». La prima volta che abbiamo fatto l’amore, circa un mese fa, eravamo capitati per caso ad una festa, invitati entrambi nella casa al lago da Silvio, in Svizzera. Eravamo rimasti soli in giardino a fumare marijuana ed erano forse le due del mattino. La bionda era la migliore amica di Lucilla, con la quale avevo provato l’ennesimo tentativo di riavvicinamento che si era rivelato ancora una volta fallimentare, e in passato aveva avuto una storia rapida e indolore con il drugo Fede. Era arrivata in Svizzera a casa di Silvio dopo un paio di mesi sabbatici a Bali e stava per riprendere il suo lavoro da hostess per una compagnia aerea tedesca. Quella sera prima di finire a letto insieme parlammo di lei, dei drastici cambi di pettinatura, della vita da hostess, dei voli turbolenti ai Caraibi, del problema di invecchiare, a 28 anni, dei fine settimana passati a New York, della sua fondamentale apatia, dell’insensatezza delle fasce orarie nel mondo… poi nudo seduto su una poltrona nella stanza che era stata preparata per noi io avevo iniziato a raccontarle di me, fumando una sigaretta dopo l’altra e avevamo fatto l’amore di nuovo anche se eravamo completamente distanti, ognuno perso nel proprio disagio. Non l’ho più vista per parecchio tempo la bionda, dopo quella volta a Palazzo Vittoria. Si era trasferita a Ibiza, si era fidanzata con un deejay di musica techno e aveva avuto due figli. Due anni fa è venuta a trovarmi alla Belle Aurore, con un bambino biondo che le stava attaccato alla gonna. Mi aveva promesso di portarmi una collana di pietre fatte con il turchese. Due giorni dopo si è lanciata dal terrazzo di casa sua dall’ultimo piano di Palazzo Vittoria. Ogni tanto ci penso. E divento irrimediabilmente triste, come oggi quando ho letto la notizia della hostess di 23 anni detenuta in Arabia Saudita e mi è tornata in mente, prima di mettermi a piangere.