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I 30 anni di Mani Pulite e il ricordo di mio padre: il racconto della settimana

Avevo solo 13 anni e la sera non mi perdevo una puntata del Processo Cusani come se, tra quegli uomini che sfilavano davanti a Di Pietro, riconoscessi il volto di mio padre. Cosa che ho cominciato a fare anche oggi che mio padre non c’è più.

26 Febbraio 2022 10:02 Andrea Frateff-Gianni
I 30 anni di Mani Pulite e mio padre: il racconto della settimana

27 gennaio

Servo una doppia vodka con ghiaccio da dietro al bancone della Belle Aurore a Carlo Feltrinelli, che non vedevo da circa un secolo, mentre dibattiamo, tra il marmo e gli specchi scintillanti dell’avamposto chic ma radicale, sul suo secondo nome, Fitzgerald, che ho scoperto casualmente, controllandogli il Green pass. «Il mio analista mi chiama Fitzgerald», gli dico con noncuranza mentre lo osservo: il cranio rasato, un maglione dolcevita a collo alto e la giacca blu, portata con sbrindellata eleganza. Poi gli domando: «Perché ti hanno chiamato Fitzgerald?». «Ah, per quel Fitzgerald non so bene la verità», mi risponde, «mia madre cambiava continuamente versione. Ogni tanto propendeva per la tesi di Kennedy, può darsi che mio padre ne subisse il fascino. Qualcuno mi ha parlato di un motto scozzese: Fitzgerald è il figlio di nessuno. Non saprei, però mi piace».

I 30 anni di Mani Pulite e mio padre/ il racconto della settimana
La Bella Aurore, a Milano.

«Figlio di nessuno», rifletto su quella frase mentre il giorno dopo, alla Feltrinelli della Stazione Centrale, prima di salire sul treno per Como, compro l’edizione economica di Senior Service, il libro che Carlo ha dedicato a suo padre Giangiacomo, “il terrorista di buona famiglia”, “il miliardario rosso”, “il dilettante della rivoluzione”, come veniva etichettato dalla stampa nazionale, prima di venire trovato morto stecchito, in circostanze ancora oggi misteriose, probabilmente fulminato, mentre saliva su un traliccio ad alta tensione dell’Enel, a Segrate, in un pomeriggio di marzo del 1972.

Mio padre sta morendo, da giorni si rifiuta di bere e mangiare, e anche se una parte di me ha già accettato l’idea quello che oggi non posso sapere è che questa sarà l’ultima volta che lo vedrò in vita

Di questo libro me ne parlò tempo fa il mio amico Rupert, e adesso che ci penso bene lo fece anche Cecilia Di Lieto, una mia collega della radio, forse proprio alla Belle Aurore, davanti a un Martini Cocktail, appena tornata dall’inaugurazione della nuova Fondazione Feltrinelli in viale Pasubio, alla quale era stata invitata. «È un libro bellissimo Andrea», mi disse Cecilia, «e mi commuovo se penso a quanto amore per il suo papà dovesse avere avuto Carlo per decidere di scriverlo». E sono proprio le sue parole che mi rimbombano adesso per la malata scatola cranica mentre sfoglio il volume, stretto nel mio cappotto Aquascutum, sbattendo disperatamente le palpebre dietro i miei occhiali da sole Ray-Ban wayfarer, seduto nelle file dietro il battello che mi porta da Como a Cernobbio, diretto verso l’RSA da 3 mila euro al mese, dove sono stato costretto a ricoverare mio padre e che non so assolutamente come pagare. Il fatto è che mio padre sta morendo, da giorni si rifiuta di bere e mangiare, e anche se una parte di me ha già accettato l’idea quello che oggi non posso sapere è che questa sarà l’ultima volta che lo vedrò in vita.

24 febbraio

Nel giugno del 1992 avevo 12 anni e frequentavo con scarso profitto la prima media a Curno, un piccolo paesino della provincia di Bergamo, dove ci eravamo trasferiti con mio padre e la sua compagna Valentina da un paio d’anni. Vivevamo in un mega appartamento circondato da un parco di fronte al campo sportivo nel quartiere Marigolda e la Renault 5 bianca di Valentina e la Bmw blu di mio padre erano le uniche auto targate Milano di tutto il paese. Papà era sempre in viaggio d’affari, come il film di Kusturica, o nella suite al Principe di Savoia dove stava quando era a Milano, e insieme ad Andrea Migliavacca, figlio di Rodolfo (il commercialista della Facchin & Gianni, l’impresa edile di mio nonno), aveva iniziato a commerciare soya e a lavorare con un certo Raul Gardini. Alla Medical Soy s.p.a. di Peschiera Borromeo affiancò nel 1990 un’altra società che chiamò La Moderna Distribuzione s.a.s. e aprì un grosso ufficio nel centro di Bergamo. Con Valentina però non andava bene da tempo, un po’ perché le spericolate operazioni finanziare di mio padre iniziavano a non funzionare bene come lui avrebbe voluto e un po’ probabilmente perché il vecchio ebbe la splendida idea di portarsi a letto sua sorella Elisabetta mentre lei si trovava ricoverata in ospedale per un forte esaurimento nervoso causato dagli improvvisi svuotamenti dei conti correnti al Credit Suisse di Zurigo, alla Cesare Ponti di Milano e alla Banca Agricola Mantovana di Bergamo.

L’8 giugno 1992 mio padre mi venne a prendere a scuola un’ora prima della fine delle lezioni, mi caricò sulla sua Bmw blu e mi portò a Milano. Non lo rividi per quattro anni

Ricordo perfettamente che quella sera fui mandato a letto in fretta e furia dopo cena, mentre loro due davanti al grosso televisore in salotto inserivano nel videoregistratore la videocassetta di Nove Settimane 1/2, celebre film degli Anni 80 con Mickey Rourke e Kim Basinger, e che rimasi fortemente sorpreso quando la mattina dopo trovai Elisabetta in cucina intenta a preparare la colazione. Fatto sta che il vento stava cambiando, in Italia si preparava a scoppiare un autentico terremoto causato dalle inchieste di un giovane e coraggioso magistrato molisano di nome Antonio Di Pietro che, curiosamente, viveva proprio a Curno a poche centinaia di metri da casa nostra. Fu proprio a febbraio di quell’anno infatti che l’arresto di Mario Chiesa diede l’inizio all’epopea giudiziaria dilagata a macchia d’olio chiamata Tangentopoli che successivamente spazzò via in poco tempo la cosiddetta Prima Repubblica. L’8 giugno del 1992 mio padre mi venne a prendere a scuola, l’ultimo giorno, un’ora prima della fine delle lezioni, mi caricò sulla sua Bmw blu e mi portò a Milano, a casa di mia nonna a Palazzo Fidia, promettendomi che sarebbe presto tornato a prendermi. Il mio unico bagaglio era lo zainetto con dentro il diario, l’astuccio portapenne e i libri d’italiano, perché la prof Moroni, che i compagni chiamavano profe, aveva voluto fare lezione fino all’ultimo. Prima di arrivare a casa di mia nonna ricordo che ci fermammo da Neglia in Piazza San Babila e che mio padre mi rivestì da capo a piedi comprandomi addirittura cinque polo Ralph Lauren. Non lo vidi da quel giorno per quattro anni consecutivi.

il racconto della settimana sui 30 anni di tangentopoli
Il processo Cusani.

A Le Rosey, il collegio svizzero in cui fui spedito e il cui salatissimo conto, circa 108 mila franchi svizzeri, veniva pagato grazie al fondo fiduciario depositato al Credit Suisse di Zurigo che mi aveva lasciato mia madre, come promette il suo slogan sarebbe “A school for life, oh, yes”, io resistetti solo tre mesi. Un giorno che mia zia Pia venne a trovarmi ricordo che mi feci trovare con i capelli rasati a zero con il rasoio elettrico che DFA aveva in camera  e che la cosa mi procurò non pochi problemi. Nulla comunque al confronto di quando mi trovarono nudo in vasca da bagno con l’acqua colorata tutta di rosso con la lametta da barba in mano e il petto tagliuzzato come avevo visto fare a Sid Vicious dopo che mi ero scolato quasi una bottiglia intera di Chivas Regal. A Le Rosey chi risulta positivo al test antidroga, viene espulso all’istante, così non mi rimase altro che recuperare una grossa quantità di marijuana, in realtà poco più che cinque grammi, e fare in modo che qualcuno la trovasse nel mio armadietto. L’inverno successivo lo passai a Milano, iscritto alla Settembrini di Viale Brianza, forse il posto più lontano al mondo che ci potesse essere dal Rosey, dove i miei amici erano quasi tutti figli di gente semplice, fattorini, impiegati, immigrati del Sud Italia, che poco avevano a che fare con i rampolli delle dinastie millenarie con cui avevo condiviso gli studi fino a quel momento. Avevo solo 13 anni e avevo già cambiato cinque scuole tra elementari e medie. La sera però dalla cucina di Palazzo Fidia non mi perdevo una puntata del Processo Cusani, che la terza rete delle Rai mandava in onda praticamente in diretta, come se la roba mi riguardasse personalmente e come se, tra quegli uomini in giacca e cravatta che sfilavano uno dopo l’altro davanti al pubblico ministero Di Pietro, riconoscessi il volto di mio padre. Cosa che ho cominciato a fare anche questa settimana (a 30 anni di distanza da allora, adesso che la Rai ha rimesso in rete l’intero processo), che mio padre non c’è più.

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