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Do di pancia

Macbeth, che il 7 dicembre inaugura la stagione della Scala, è l’opera più sperimentale di Verdi. E nacque durante una prolungata degenza del maestro a Recoaro per curare una “febbre gastrica”. La storia.

5 Dicembre 2021 16:04 Cesare Galla

La cronologia delle opere di Giuseppe Verdi durante i cosiddetti “anni di galera” – il periodo fra Nabucco (marzo 1842) e Stiffelio (novembre 1850) – comprende 14 titoli. In media, “stritolato” nel sistema produttivo con i suoi tempi frenetici e le pratiche rappresentative condizionate dallo strapotere degli impresari e dalle bizze dei cantanti, il bussetano mandò in scena in quegli otto anni e mezzo un melodramma ogni sette mesi. Sono lavori che fanno parte della storia dell’opera italiana nell’Ottocento, naturalmente – era il cammino verso la definitiva affermazione della “trilogia popolare” Rigoletto, Trovatore, Traviata – ma che non appartengono al repertorio più frequentato. Anzi, a volte oggi sono delle vere e proprie rarità.

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Il lavoro sperimentale su Macbeth, in scena alla Scala di Milano il 7 dicembre

C’è una sola eccezione, Macbeth, il dramma musicale da Shakespeare che il 7 dicembre inaugura la stagione della Scala. E non è casuale che sia un’eccezione anche la modalità in cui vide la luce quest’opera, che la critica più aggiornata giustamente definisce «capolavoro di frontiera». Perché passò un intero anno fra il debutto di Attila alla Fenice di Venezia (17 marzo 1846) e quello dell’opera tratta dalla tragedia del Bardo, andata in scena al Teatro della Pergola di Firenze il 14 marzo 1847. E in quell’anno Verdi mise a punto un lavoro per molti aspetti sperimentale, così avanzato da essere rimasto per molti aspetti a lungo isolato nella sua stessa vicenda creativa. Questo diverso metodo di lavoro fu possibile per un serio problema di salute.

La “febbre gastrica” che permise a Verdi di elaborare l’opera di Shakespeare

Non è facile dire – anche se si può lavorare di immaginazione – che cosa si intendesse alla metà del XIX secolo per “febbre gastrica”. Fatto sta che questa fu la diagnosi del medico veneziano a cui il compositore si rivolse nelle settimane precedenti l’andata in scena di Attila. Una patologia resa più grave da una ricaduta quando sembrava che il peggio fosse alle spalle. Il medico gli prescrisse sei mesi di riposo e gli consigliò caldamente di seguire una cura termale a Recoaro. Incredibile ma vero, Verdi seguì per filo e per segno le prescrizioni. Mandò un certificato medico al direttore del teatro di Londra dov’era atteso per un’opera nuova, rinviando l’impegno. E così I Masnadieri (oggi uno dei suoi titoli meno rappresentati e anche uno dei più deboli) furono “sbrigati” nel giro di pochi mesi solo dopo il debutto del Macbeth e andarono in scena alla fine di luglio del 1847. Invece, grazie al riposo obbligato il musicista ebbe il tempo di elaborare il dramma musicale da Shakespeare con una profondità e una forza senza precedenti nella sua carriera.

Il progetto durante la degenza a Recoaro

Il progetto prese forma proprio a Recoaro, dove si moriva di noia (così il musicista scrisse a un’amica) e l’unica “distrazione” erano le conversazioni con un letterato e amico milanese di buon cuore e di discreta penna, il conte Andrea Maffei, che si era offerto di accompagnarlo a «passare le acque». Verdi e Maffei non avevano esattamente le stesse idee a proposito del Macbeth, specie sul ruolo e il peso dell’elemento fantastico e soprannaturale nella tragedia, ma lo scambio di opinioni su questo autore amatissimo e ben conosciuto dal compositore, che aveva letto le tragedie nella recente versione italiana in prosa di Carlo Rusconi, fu evidentemente determinante. Per il libretto, la scelta cadde su Francesco Maria Piave (1810-1876), veneziano di Murano, che già aveva collaborato con Verdi per Ernani, I due Foscari e Attila. In questa occasione, il rapporto fu tempestoso a causa della crescente insoddisfazione del compositore, che non vedeva corrispondere alla sua idea il lavoro del poeta.

La lite col librettista Francesco Maria Piave e l’intervento di Andrea Maffei

Le lettere mostrano un Verdi irritato, sferzante, tagliente ai limiti dell’insolenza: «Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane! Se noi non possiamo fare una gran cosa, cerchiamo almeno di fare una cosa fuori dal comune […] Non ci deve essere una parola inutile: tutto deve dire qualche cosa […]». E infine, a mo’ di ordine di servizio, peraltro velleitario, dopo tante critiche: «Brevità e sublimità!». Alla fine, sempre scontento del lavoro di Piave, nonostante il costante “pressing” epistolare, Verdi chiese aiuto a Maffei, che aggiustò vari passi del testo, e soprattutto riscrisse gli interventi delle streghe, e il famoso coro che apre il quarto atto, Patria oppressa. L’autore veneziano ne fu ruvidamente informato a cose fatte: «Ora tutto è accomodato, cambiando però quasi tutto». Il libretto fu pubblicato anonimo ma gli screzi del 1847 non incrinarono i rapporti del compositore con il librettista, che di lì a poco gli avrebbe consegnato i versi di Rigoletto e della Traviata, e un decennio più tardi quelli del Simon Boccanegra.

L’indimenticabile edizione del 1952 alla Scala con Maria Callas

Nel 1865, poi, a Piave sarebbe stato richiesto di collaborare nuovamente al libretto, ovvero alla versione italiana delle aggiunte realizzate per l’edizione francese del Macbeth, andata in scena al Théâtre Lyrique di Parigi. Questa veste (la musica che fu eseguita a Parigi con libretto in italiano) fu sempre considerata da Verdi quella definitiva di un’opera verso la quale – per tutta la sua vita – non cessò di manifestare una particolare predilezione. L’intervento verdiano riguardò, oltre a vari dettagli “minori”, alcune aggiunte musicali importanti: La luce langue, aria di Lady Macbeth nel secondo atto, la musica per i Balli nel terzo atto (di rigore sulle scene francesi) la completa riscrittura musicale del coro che apre il quarto atto e una nuova soluzione drammatica per la morte del protagonista, comprendente – per la scena della battaglia decisiva – uno splendido Fugato orchestrale. In questa stesura verrà proposto anche il Macbeth scaligero di Sant’Ambrogio, com’è prassi consolidata dal secondo Dopoguerra in poi, a partire dalle edizioni della riscoperta: nel 1949 alla Rai di Torino, nel 1951 a Genova e Firenze, ma soprattutto nel 1952 proprio alla Scala, protagonista Maria Callas, direttore Victor De Sabata. Un’interpretazione rivelatrice, entrata nella storia, da allora confronto ineludibile per qualsiasi soprano drammatico.

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