Anatomia del Macbeth
Una vocalità lontana dalle consuetudini dell’epoca, quasi un canto parlato. E una recitazione integrale che soverchia le prerogative musicali. Un'opera totale curata da Verdi in ogni dettaglio, costumi compresi. Analisi della versione del 1865 che aprirà la stagione della Scala.
Il Macbeth in scena alla Scala per Sant’Ambrogio (direttore Riccardo Chailly, regia Davide Livermore, interpreti principali Luca Salsi e Anna Netrebko) sarà quello della versione per Parigi del 1865 (Balli compresi) con un recupero di consuetudine di quanto stralciato dall’autore della versione 1847, l’Arioso della morte del protagonista, pagina effettivamente di grande fascino.
Gli interventi di Verdi sull’opera a 20 anni dal debutto
Gli interventi di Verdi a quasi 20 anni di distanza sono evidenti all’ascolto. Ma è passata l’epoca in cui la critica puntava il dito contro le presunte diseguaglianze di linguaggio in quest’opera. In realtà, le aggiunte non fanno che seguire e accentuare – con linguaggio maturato, evidentemente – l’impostazione originale. L’orrore della vicenda, dalla brama di potere dei protagonisti alla lacerante discesa agli inferi della loro coscienza, dalle profezie alle allucinazioni, dagli spietati delitti all’inesorabile espiazione, si riflette in un linguaggio musicale obliquo, basato su intervalli spesso stretti e inquietanti, su accordi aspri, non di rado vicini alla dissonanza, che soffocano e oscurano anche le non frequenti aperture melodiche. E in una vocalità lontanissima dalle consuetudini dell’epoca, non solo per la distribuzione (il ruolo della voce di tenore è minimo, i protagonisti sono baritono, soprano e coro). Basti dire che Massimo Mila, patriarca degli studiosi verdiani, per definirla parlò di Sprechgesang, il cosiddetto “canto parlato” del Pierrot Lunaire, lanciando un provocatorio collegamento fra Verdi e Schoenberg.

Il memoir di Marianna Barbieri Nini, la prima Lady Macbeth
Sembra un paradosso, non lo è poi tanto se stiamo a quel che diceva Verdi, che seguì passo passo i cantanti durante la preparazione del debutto: «Ho piacere», chiarì per esempio al primo Macbeth, Felice Varesi, «che servi meglio il poeta che il maestro». Era il preannuncio della “parola scenica”, cardine drammaturgico musicale della grande maturità. Oltre che nelle lettere a Varesi (nelle quali si delinea il tipo di vocalità richiesta per il protagonista: cupa, velata, anche soffocata) l’atmosfera in cui si svolsero le prove al Teatro della Pergola di Firenze è rievocata in un documento di notevole brillantezza, il memoir di Marianna Barbieri Nini, la prima Lady Macbeth, consegnato al biografo verdiano Gino Monaldi e pubblicato a fine Ottocento (Verdi. Le vita e le opere, 1899). «Mi ricordo», così il soprano, «che due erano per il Verdi i punti culminanti dell’opera: la scena del sonnambulismo (quarto atto; ndr) e il mio duetto col baritono (primo atto; ndr). Si durerà fatica a crederlo, ma è un fatto che la sola scena del sonnambulismo assorbì tre mesi di studio. Io per tre mesi, mattina e sera, cercai d’imitare quelli che parlano dormendo, che articolano parole, come diceva il Maestro, senza quasi muovere le labbra lasciando immobili le altre parti del volto, compresi gli occhi… Fu una cosa da impazzire! E il duetto col baritono che comincia “Fatal mia donna, un murmure”, vi parrà incredibile, ma fa provato più di 150 volte per ottenere, diceva Verdi, che fosse più discorso che cantato».

Verdi drammaturgo integrale e regista
Sintomatica la posizione che il musicista in veste di drammaturgo “integrale” e regista assunse quando venne a conoscenza del fatto che il primo interprete di Banco, il basso Michele Benedetti, non intendeva riapparire in scena nel secondo atto per fare la parte dello spettro del suo personaggio, visto che non c’era da aprir bocca: «Mi spiace che chi farà la parte di Banco non voglia far l’Ombra! E perché? I cantanti devono essere scritturati per cantare ed agire: d’altronde queste convenienze è tempo di abbandonarle. Sarebbe una cosa mostruosa che un altro facesse l’Ombra, poiché Banco deve conservare precisamente la sua figura anche quando è Ombra».
Perché il Macbeth verdiano è un’opera d’arte totale
Mai prima la necessità di una recitazione “integrale” che soverchia anche le prerogative musicali (“più discorso che canto”) era stata affermata in maniera così perentoria. In questa logica, ben si capisce come il musicista volesse sorvegliare, se così si può dire, tutti gli aspetti della realizzazione del suo innovativo progetto di dramma musicale da Shakespeare, ritagliandosi un ruolo di regista ante litteram. Una circostanza che ha permesso (sempre da parte di Mila, ma la suggestione è stata accolta da altri studiosi, primo fra tutti Julian Budden) di parlare per Macbeth di Gesamtkunstwerk. Una versione all’italiana di quella opera d’arte totale, che peraltro Wagner stava sì meditando allora, ma avrebbe realizzato compiutamente solo qualche decennio più avanti. Così, Verdi volle che gli effetti speciali (streghe e apparizioni nel terzo atto) fossero attuati secondo la prassi che aveva potuto constatare assistendo a un Macbeth shakespeariano a Londra; chiese consulenze a Milano per i “macchinismi” necessari alla “fantasmagoria” del secondo atto, con l’apparizione dello spettro di Banco; si premurò di fare in modo che la scenografia fornisse un preciso riferimento all’epoca della vicenda (correggendo lo scenografo della Pergola, che aveva preso una cantonata cronologica). Si occupò perfino dei costumi, scrivendo all’impresario Alessandro Lanari: «È inutile che ti dica che nel vestiario non ci dev’essere né seta né velluto», tessuti ovviamente fuori contesto nella selvaggia Scozia del secolo XI. Come ha chiosato Mila, «un tocco alla Luchino Visconti».