Roman Protasevich, co-fondatore con Stepan Putilo di Nexta, canale Telegram sui cui ha viaggiato soprattutto negli ultimi mesi la protesta anti-Lukashenko, è stato arrestato all’aeroporto di Minsk con una spregiudicata azione di intelligence orchestrata dal KGB, i servizi segreti bielorussi. Per il presidente, in carica 1994 e che dopo le elezioni truccate dello scorso anno, non è stato riconosciuto né dall’Europa né dagli Stati Uniti, l’operazione è considerata un successo, perfettamente calata in una strategia di imbavagliamento delle voci del dissenso che va avanti da mesi. E poco importa se l’Occidente è insorto gridando a un dirottamento di Stato mai visto prima e l’Ue ha già comminato sanzioni contro l’ex repubblica sovietica.
The hijacking of the Ryanair plane by the Belarus regime is an attack on democracy.
An attack on freedom of expression.
An attack on European sovereignty.
Roman Pratasevich & Sofia Sapega must be released immediately. pic.twitter.com/r2rxBSnzer
— Ursula von der Leyen (@vonderleyen) May 25, 2021
Se fino ad ora della repressione ne avevano fatto le spese gli avversari in Bielorussia, costringere un volo internazionale civile a un atterraggio di emergenza per mettere dietro le sbarre un giornalista scomodo è, però, il segnale inequivocabile, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, che Lukashenko non ha nessuna intenzione di aprire un dialogo né con l’opposizione interna né con l’Occidente, con cui è disposto ad alzare addirittura i toni del confronto.
Aereo costretto all’atterraggio, un copione già visto
Il caso dell’aereo costretto all’atterraggio, comunque, non è nuovo ed era già stato sperimentato, seppur da altri attori, in Austria nel 2013 e in Ucraina del 2016. E Proprio ieri Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo ha citato il primo episodio, ricordando come l’aereo su cui viaggiava il presidente colombiano Evo Morales era stato fatto atterrare a Vienna con il sospetto che ci fosse a bordo Edward Snowden, spia inseguita da Washington. Il messaggio, neppure troppo fra le righe suonava così: «Se lo hanno fanno gli Usa, perché non può farlo Lukashenko?». Tre anni dopo fu il turno, di un volo di linea bielorusso, dirottato in Ucraina per la presenza a bordo di un cittadino armeno sospettato di essere un agente dei servizi segreti.
La lista nera di Lukashenko
Protasevich e Putilo, da tempo in Polonia, dove avevano già richiesto asilo politico, erano finiti dallo scorso autunno sulla lista nera di Lukashenko, insieme ovviamente alla figura più illustre dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya. L’arresto è anche un avvertimento a quest’ultima. Con Protasevich finisce quindi dietro le sbarre un altro esponente di quella schiera, molto folta, di attivisti antiregime, politici e giornalisti, che hanno tentato di spingere per un sistema alternativo a quello attuale.

Se prima delle elezioni dell’agosto 2019 erano finiti in carcere i candidati di maggior perso, a partire dal banchiere non certo sgradito al Cremlino Viktor Babariko, dopo il voto era stata la volta di Maria Kolesnikova, la più carismatica delle figure sulla piazza, e di tutti gli oppositori rimasti a Minsk che Tikhanovskaya aveva cooptato nel Consiglio di coordinamento da lei istituito. Tra le eccezioni, il premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich, minacciata, ma lasciata a casa propria.
La campagna contro i media di Lukashenko
Non solo. Lukashenko ha anche scatenato una campagna contro i media senza precedenti, culminata la scorsa settimana con l’oscuramento del canale Tut.by che aveva dato gran voce all’opposizione. Tra il 2020 e primi mesi del 2021, decine di giornalisti sono stati fermati, arrestati e condannati. I bastoni tra le ruote sono stati messi soprattutto ai collaboratori bielorussi delle testate occidentali, dalla statunitense Radio Free Europe alla tedesca Deutsche Welle passando per la polacca Belsat.
Chi sostiene ancora Lukashenko
Due sono le ragioni che spiegano perché Lukashenko sia ancora comunque al suo posto e si possa permettere azioni come quella dell’arresto di Protasevich. Da un lato c’è la situazione interna: il sistema è ancora stabile, il presidente continua a godere della fiducia dell’apparato di sicurezza e amministrativo, le proteste sono state contenute, in parte scemate da sole, in parte duramente represse.
A differenza però dell’Ucraina del 2013-14, la Bielorussia del 2020-21 è un paese dove i poteri non sono distribuiti tra vari oligarchi, ma concentrati nelle mani di una sola persona; la protesta non è stata declinata sul modello delle rivoluzioni colorate e del duello tra Russia e Occidente perché a Minsk non c’è mai stato un terreno fertile, coltivato dall’esterno. Senza opposizione interna, crepe nel regime e aiuti esterni per Lukashenko è stato quindi relativamente facile mantenere il controllo. Fino a quando, resta in ogni caso ancora da vedere.
L’alleanza tra Putin e Lukashenko
Dall’altro lato, c’è il contesto esterno e l’appoggio fondamentale della Russia di Vladimir Putin, a sua volta invischiato nella nuova Guerra fredda. Lukashenko ha potuto contare sinora sul supporto interessato del Cremlino e si è permesso di giocare duro, sapendo che la Russia è disposta a molto, anche se non a tutto, pur di non vedere spostato il baricentro bielorusso verso Occidente. Il gioco di Minsk è però molto rischioso, perché quanto più questo si fa sporco, tanto più Mosca alzerà il prezzo finale.