«Volevo una bambola. Mi portarono un cavallo a dondolo ma io lo buttai giù dal balcone e lo feci a pezzetti. Non c’era niente da fare: ero femmina». Si raccontava così nel 2018 a Lettera43 Lucy Salani, unica persona trans italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, morta oggi 22 marzo a 98 anni. Lucy, nata Luciano nel 1924, aveva passato l’infanzia a Fossano, nel Cuneese poi a Bologna. Vivendo la consapevolezza dell’omosessualità, i primi amori, e poi il fascismo e la guerra. Poi l’8 settembre, lo sfasciarsi dell’esercito italiano, mille fughe fino all’arresto e alla deportazione a Dachau come disertore, contrassegnato dal triangolo rosso. «Io ho visto cosa è successo là», diceva con la voce rotta. «Erano ancora vivi, li buttavano nei forni che ancora si muovevano… Terribile». «Appena arrivati», ricordava, «ci contarono e ci diedero un numero perché là il nome non era valido. E io l’ho imparato, il mio numero».

Lucy, essere gay sotto il fascismo
La storia di Lucy, il cui cambio di sesso è avvenuto a Londra negli Anni 60, è stata raccontata da Gabriella Romano nel libro Il mio nome è Lucy, L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale (Donzelli, 2009) e nel documentario Essere Lucy, uscito nel 2011. Un intero secolo riletto attraverso lo sguardo di un ragazzino inquieto nato in un paese di provincia che si è scoperto “diverso” nella Bologna fascista dove aveva finalmente cominciato a vivere la sua omosessualità, frequentando in clandestinità un gruppetto di amici gay. «Il fascismo? L’ho sempre ignorato», ricordava. «Era un partito che non mi interessava…mi interessava ben altro…». Ma «c’ero dentro. Facevo quello che mi dicevano. Il sabato andavo a fare l’avanguardista e cose del genere». Bisognava stare attenti, però, e Lucy lo sapeva. Quelli “come lui”, i più visibili, venivano picchiati, umiliati dalle squadracce fasciste. Gli arresti erano frequenti e spesso gli omosessuali erano attirati da ragazzi in luoghi appartati per essere poi massacrati di botte. Trappole quotidiane. Altre volte, dopo essere stati picchiati venivano cosparsi di catrame. Luciano era molto accorto, ricevette un paio di ceffoni soltanto in un’occasione, mentre passeggiava in centro di Bologna con un amico che invece fu pestato in pubblico, in via Indipendenza. L’omosessualità era un oltraggio tale per la presunta superiorità della razza italica, tanto da non essere nemmeno inserita tra i reati del Codice Rocco. Andava semplicemente negata. O messa a tacere con pugni e calci.
L’arresto e la deportazione a Dachau
Nel 1943 Luciano venne reclutato e spedito a Cormons, in Friuli Venezia Giulia: artiglieria. Per fuggire dall’esercito ammise pure di essere omosessuale, che non poteva partire per il fronte, ma nulla. «Non mi hanno creduto», allargava le braccia. Dall’altra parte si sentì rispondere solo un: «Dite tutti così». L’esperienza sotto le armi però duro poco, solo tre settimane. L’8 settembre, infatti, con l’armistizio l’esercito si dissolse, molti fuggirono. E il soldato Luciano era tra questi. Raggiunse nuovamente Bologna, dove nel frattempo si era diffusa la voce che a chi non si fosse presentato per l’arruolamento con i repubblichini o i tedeschi sarebbe stato ucciso un genitore. Davanti a quella minaccia, non ebbe dubbi: uscì allo scoperto si arruolò con i secondi. Fu spedito a Suviana, nell’Appennino bolognese, dove però venne ricoverato a causa di una brutta bronchite. Colse l’occasione e fuggì dall’ospedale per tornare a casa. A Bologna riprese la solita vita frequentando il solito giro di amici. Una sera conobbe un ufficiale tedesco. «Mi fece l’occhiolino, io lo seguì…». Giusto il tempo di raggiungere una camera d’albergo e furono scoperti da fascisti e tedeschi. Li avevano seguiti, forse imbeccati da una soffiata. Lui, omosessuale e disertore venne arrestato e spedito ai lavori forzati, in Germania. Del soldato tedesco non seppe più nulla. Luciano anche in questo caso riuscì a evadere: con un amico saltò su un treno, nascondendosi in un vagone pieno di carbone. A una fermata, il compagno di fuga saltò giù dal convoglio e iniziò a correre, ma venne freddato da una sventagliata di mitra. Lui invece fu arrestato. Viste le numerose fughe, venne “qualificato” come disertore e finì deportato a Dachau. Sei mesi sepolto nell’orrore.

L’operazione a Londra e la rinascita
Tornò a Bologna solo nell’agosto 1945. «Mi sentivo finalmente libera di sfogare il mio essere», ricordava col sorriso, «e ne ho fatte davvero di tutti i colori». Da lì si trasferì a Torino dove ebbe fortuna come tappezziere. Negli Anni 60 la decisione di una vita: cambiare sesso, a Londra. «Anche se ero già vecchiotta…». Luciano finalmente era diventata Lucy. O, meglio, Lucy era finalmente venuta alla luce, perché femmina Luciano lo era sempre stata. E come Lucy tornò a Dachau a maggio 2010 in occasione del 65esimo anno della liberazione del campo, accompagnata da Gabriella Romano. Un viaggio che ha concluso la loro lunga intervista cominciata nel 2007 e che l’ha riportata nei luoghi della sua vita. «Quello a Dachau è stato un viaggio emotivamente denso, per entrambe», spiegava Romano a L43. «Ha rivisto quei luoghi e, anche se il campo è stato quasi completamente distrutto, questo viaggio ha riportato alla luce ricordi che Lucy aveva sepolto nella memoria». Luoghi dove le persone – ebrei, rom, disabili, omosessuali – venivano annientate, scarnificate fino a essere ridotte a numeri da eliminare. «Eravamo affamati e disperati», ricordava Lucy, chiudendo per un attimo gli occhi azzurri. «Cercavamo solo un pezzo di pane e la libertà».