Ottant’anni fa gli astri dovevano essere allineati in una maniera incredibile, se è vero come è vero che nel giro di poche ore, a cavallo tra il 4 e il 5 marzo 1943 sono venuti alla luce, rispettivamente a Bologna e Poggio Bustone, Lucio Dalla e Lucio Battisti. Due artisti, diciamolo subito tanto da passare poi oltre, che sono tra le poche pietre miliari della nostra cultura popolare virata in musica, chiamata leggera solo per convenzione, insieme a un Domenico Modugno, a Fabrizio De Andrè e pochi altri. Due nomi, va detto anche questo in principio, tanto da poter poi proseguire serenamente, che quasi nulla condividevano sul piano personale, ma che hanno segnato la storia della musica per quella loro curiosità vorace e insaziabile, e quel talento messo a frutto anche quando i tempi potevano sembrare non del tutto maturi per renderlo decifrabile all’esterno, troppo avanti per noi umani, testa di un’ariete che ha aperto varchi di luce su tante carriere future altrui.

Dalla ha dimostrato come il bel canto si possa portare in ogni genere, dal jazz alla dance
Lucio Dalla, è in realtà di lui che andremo a parlare, ha toccato, nel corso di una carriera lunga sei decenni, seppur l’ultimo di sfuggita, praticamente tutti i generi musicali, facendo del continuo cambio di passo una caratteristica peculiare della propria cifra, e dimostrando come si possa portare quello che in genere viene bollato sommariamente come “il bel canto” anche dentro generi che in apparenza spostano su altri fattori il loro cuore, come il jazz o più in generale la musica di origine afroamericana/africana, fino alla dance. Partito dentro orchestrine jazz e finito, non certo suo malgrado, in quel di Sanremo a cantare brani che andavano a pescare anche nell’immaginario beat, Dalla ha cominciato a essere realmente Dalla quando ha provato a mettere a fuoco un percorso artistico che prevedesse al suo fianco figure come Paola Pallottino o Sergio Bardotti, con un vero e proprio salto di qualità nel momento in cui il nostro incontra il poeta Roberto Roversi, col quale darà vita a una trilogia in qualche modo strabiliante: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili. Trampolino di lancio per quel filotto ancora insuperato nella musica italiana che vede Dalla inanellare uno dietro l’altro capolavori assoluti quali Come è profondo il mare, Lucio Dalla, Dalla, con in mezzo il live Banana Republic, condiviso con Francesco De Gregori e la complicità del solito Ron e degli Stadio.
I “figliocci” diretti di Dalla: da Carboni a Bersani
Da lì in poi una carriera che è proseguita con picchi altissimi, penso a DallaMorandi, che in qualche modo ha cristallizzato a futura memoria l’arte anche del suo sodale Gianni Morandi, o DallAmeriCaruso, album live che contiene quella che a oggi è la sua canzone più famosa nel mondo, nonché una delle canzoni italiane più famose tout-court, ma anche le incursioni nell’elettronica pura come Viaggi Organizzati o Bugie, quella nel cantautorato 2.0 come Henna, hit quali Attenti al lupo e Canzone a rinverdirne il successo, oltre che una popolarità anche giocata su una istrioneria fuori dal comune, una capacità di arrivare all’alto e al basso nel medesimo momento, tutto già presente nelle sue canzoni. In tutto, inutile star qui a fare l’elenco dei suoi brani, dei suoi album, quindi dei suoi successi, una vorace attenzione verso tutto quello che suonava come nuovo, dalla musica agli artisti, un elenco di artisti lanciati senza precedenti e senza possibili epigoni tra gli artisti in vita. Dai già citati Ron e Stadio, certo, via via verso Luca Carboni, che lo avvicinò mentre stava in una nota osteria bolognese facendogli leggere i suoi testi appuntati su tovaglioli di carta, e da lì arrivò a farsi produrre, a Samuele Bersani, che gli fece sentire un suo brano registrato voce e piano in una audiocassetta e la sera stessa si ritrovò a suonarla sul palco, durante un suo concerto in Romagna, passando per Bracco di Graci, Angela Baraldi, fino a Pierdavide Carone, che accompagnerà a Sanremo proprio pochi giorni prima della sua prematura morte. Nel mentre, in una bulimia artistica e compositiva, collaborazioni con un numero incredibile di artisti, dai già citati Francesco De Gregori, che ai tempi di Banana Republic riconvincerà a tornare sul palco dopo il famoso processo proletario da lui subito al PalaLido di Milano a Gianni Morandi, a sua volta salvato da un momento abbastanza oscuro, prima come l’album fatto insieme e poi con la collaborazione al suo Varietà, per il quale scriverà una buona metà delle canzoni e a cui presterà il suo storico collaboratore e produttore Mauro Malavasi, per non dire delle tante, tantissime canzoni scritte per praticamente chiunque, dalla Mannoia alla Vanoni, da Mango, suo il testo di Bella d’estate, a Riccardo Cocciante.

Quell’eredità artistica intangibile che ha aperto le strade a generazioni di musicisti
Questo, però, è solo il lascito che Lucio Dalla ha direttamente fatto alla musica italiana e a chi la musica italiana la ama e la ascolta. C’è poi l’eredità artistica che il cantautore bolognese ha lasciato, qualcosa forse di intangibile, e sicuramente non riscontrabile consultando il sito della SIAE, ma facilmente decrittabile per chiunque abbia un minimo di conoscenza di quel che la musica era prima dell’avvento di Lucio Dalla, come di Battisti e di Modugno, ripeto, tre snodi fondamentale per l’evoluzione del canto popolare e del concetto di cantauorato. Per dire, ci sarebbero mai potuti essere artisti come quelli usciti dalla scuola romana de Il Locale senza il continuo spaziare tra generi di Dalla? Avremmo cioè avuto un Daniele Silvestri, un Max Gazzè, i Tiromancino o Riccardo Sinigallia senza che prima di loro Dalla spaziasse così liberamente tra i canoni, giocando anche con le parole come mai nessuno prima di lui? Lasciando da parte i suoi eredi diretti, quelli cioè su citati e coi quali ha collaborato direttamente, Bersani e Carboni su tutti, ci sarebbero stati artisti quali Cesare Cremonini, forse il suo erede più chiaro e dichiarato, il duetto ex post fatto su Stella di mare per il lancio del suo album dal vivo del 2022 ne è prova evidente, o Renzo Rubino, che come Dalla non si è fermato alla musica leggera, andando a giocare con la classica, la romanza, la sinfonia? Per non dire di quanti, penso al Marco Mengoni vincitore a Sanremo con Due vite giusto qualche settimane fa, in forte debito con Dalla nei suoni, oltre che nella struttura armonica de La notte dei miracoli. Le nuove leve, da Blanco a Mahmood, passando per Ultimo, il più classico del gruppo, ma con comunque una vena black che si manifesta in quei suoi parlato intonato che fa il verso al rap, come gli stessi Pinguini Tattici Nucleari, sono tutti in qualche modo figliocci suoi, seppur in maniera meno evidente, per quel modo di giocare con la voce, con le parole, come è stato per Prince negli Usa, quando sei l’apripista di un po’ tutti i generi facile che a te si torni, anche inconsapevolmente. Insomma, sono passati 11 anni da che Lucio Dalla ci ha lasciato, all’improvviso, in quella Montreux che al suo amato jazz è a doppio filo legata, ma in fondo è come se la sua musica non se ne fosse andata mai, presente nelle tante canzoni che ha inciso e in quelle di quanti, per parafrasarlo, hanno bevuto alla sua fontana (anche se la fontana cui Dalla faceva riferimento in Disperato erotico stomp era un’altra, occhio a non fare gaffe).