In una valigia fatta a mano di cuoio da selleria molto preppy di Tommy Hilfiger infilo alla rinfusa delle cose che possono tornarmi utili nella fuga. Un abito blu, una camicia azzurra e una bianca, entrambe Ralph Lauren, una t-shirt con sopra il teschio dei pirati, una sciarpa di Burberry, un maglione di cachemire color cammello e un paio di Levi’s. In un secondo momento aggiungo anche il passaporto falso e delle foto di quando ero piccolo, per non dimenticarmi chi sono. Mi lascio alle spalle la porta di casa e, a piedi, stretto nel trench, mi dirigo verso la stazione più vicina della metropolitana. Alzo il volume delle cuffie dell’iPod con l’ultimo singolo dei Kills a palla ma ciò nonostante nelle mie orecchie continuano a riecheggiare le urla di sua madre e della piccola Lucia. A causa della coca che ho tirato prima di uscire sento la gola secca, e deglutisco nel tentativo di inumidirla anche se la sensazione che ho è simile a quella di un tizio che ha ingoiato una pallina da tennis. Penso a Ludovica, al profumo soffice dei suoi capelli, alle giornate felici dell’estate scorsa a St. Barth, a quando dopo aver fatto il bagno nell’oceano a tarda sera, rientravamo a casa tremanti avvolti in grossi teli da mare bianchi e bevevamo champagne o bottiglie d’annata di Chateau Margaux in enormi bicchieri di cristallo con sopra incisi fiori di cactus. Seguendo percorsi che mi rifiuto di ricordare arrivo in maniera del tutto casuale all’aeroporto di Linate e in edicola non posso fare a meno di notare la faccia di Ludovica su tutte le prime pagine dei giornali. In seguito vengo arrestato anch’io con l’accusa di duplice omicidio preterintenzionale, poco prima dell’imbarco agli sportelli della British Airways, da un paio di agenti poco più giovani di me. Nel tragitto verso il carcere, con il volto gonfio e tumefatto, non penso più a nulla, né a Ludovica e al suo tradimento, né alle 97 coltellate nel petto di sua madre, né all’affilatissimo coltello da sushi usato per sezionare il cadavere di sua sorella Sofia, né alla marmorea erezione provata immediatamente dopo il delitto. Nelle orecchie solo il ritornello di una canzone…Quale sarebbe la nazione più adatta per trovarsi una ragazza con il cuore di latta?
Finisco il racconto per la scuola di scrittura. Distolgo gli occhi dallo schermo del MacBook. Spengo lo spino di caramello nel grosso portacenere arancione strabordante di mozziconi, filtri ingialliti, striscioline di carta di riso e Philip Morris sventrate. Mi alzo dal tavolo in legno della cucina e vado verso il frigorifero, alla ricerca di qualcosa da bere per placare l’arsura. Poi decido di uscire, salto sulla bici e vado prima al Bar Basso a bere un Bloody Mary e poi a mangiare da solo in una paninoteca in via Malpighi, dietro Porta Venezia, dove ordino un panino che si chiama Montagu e una coca-cola ghiaccio e limone. Quando torno a casa trovo sul tavolo in legno della cucina un biglietto scritto su carta intestata del Westin Palace Hotel di Ofelia che mi dice di raggiungerla lì più tardi, finita la lezione al corso da sommelier, per l’aperitivo. Quando sto per uscire di nuovo Dodo mi telefona e mi dice che, da quando Rupert è partito per il Sudafrica, ha avuto mille difficoltà a trovare della cocaina, che in giro c’è solo merda e poi aggiunge che c’è una serata allo Shocking Club dove suona Ralf alla quale non possiamo assolutamente mancare. «Ma cosa vuoi?», chiedo, mentre mi infilo fuori dalla porta. «Ho bisogno di un po’ di barella. Qualsiasi quantitativo. Un etto, un etto e mezzo». «Tu sei fuori di testa», rispondo, «non ho la vaga idea di come fare per aiutarti, hombre». «Senti», dice Dodo, «fai qualche telefonata, muovi un po’ le acque. Ne ho bisogno prima di sabato». Poi chiudo la comunicazione, esco di casa e facendo finta di niente mi dirigo verso Piazza della Repubblica all’appuntamento con Ofelia.

Da qualche mese io e Ofelia siamo andati a vivere insieme in un piccolo appartamento di 30 metri quadri in via Amedeo d’Aosta al numero 8, nello stesso palazzo dove sono nato e dove ho abitato con mio padre e mio fratello fino al 1990. Via Amedeo d’Aosta è una piccola strada a forma di Y compresa tra via Plinio, via Pascoli e viale Abruzzi. Sorta sulle ceneri della vecchia Bianchi, distrutta dai bombardamenti del 43, è composta da 19 palazzine isolate da un giardinetto condominiale che sono state ordinate nello spazio rimasto libero dalla fabbrica. Al centro del complesso si trova il palazzo più grande. Si tratta del Condominio 8 o Verbena, progettato dallo Studio Ponti nel 1959, i cui eleganti dettagli delle ceramiche di rivestimento e di uno degli ingressi non passano inosservati. I miei genitori vi si trasferirono intorno alla metà degli Anni 70 e io ci sono appena tornato ad abitare, dopo i fatti che mi hanno costretto ad abbandonare la mia stanza allo Squat Konkordia. Pago l’affitto a una finanziaria, 750 euro al mese, per un appartamento al piano rialzato che una volta era di proprietà di una delle società di mio padre, la Louis Frateff S.p.a. Ultima di una serie di scatole cinesi che a un certo punto è stata ceduta in fretta e furia a mio fratello Stefano, prima di venire messa definitivamente nelle mani di un liquidatore. Per un complicato giro di ipoteche e sequestri questo appartamento è rimasto formalmente ancora di proprietà della società, rilevata oggi da una finanziaria lussemburghese, e fino a quando non sarà venduto mi è permesso di starci pagando un regolare affitto.
Sorta sulle ceneri della vecchia Bianchi, distrutta dai bombardamenti del 43, via Amedeo d’Aosta è composta da 19 palazzine isolate da un giardinetto condominiale che sono state ordinate nello spazio rimasto libero dalla fabbrica. Al centro si trova il palazzo più grande, il Condominio 8 o Verbena, progettato dallo Studio Ponti nel 1959, i cui eleganti dettagli delle ceramiche di rivestimento e di uno degli ingressi non passano inosservati
Con Ofelia se non siamo a letto a fare l’amore o non vediamo film al cinema Apollo in Piazza Liberty siamo da Grancini o in qualche altra enoteca in zona a comprare champagne oppure allo store di viale Piave perché le serve un computer nuovo e anch’io voglio un iPhone. Quando il mese scorso siamo andati da De Ponti, in via Plinio, a comperare un’altra cassa di champagne mi è venuto in mente che qui da piccolo venivo a fare la spesa con mio padre e, impalato nella zona delle corsie dove sono esposti i generi alimentari, ho provato a ricostruire nella memoria quei momenti senza riuscirci minimamente. Quando mi accorgo che Ofelia è sparita mi sposto per cercarla lungo le corsie laterali e contemporaneamente penso a una serie di foto di lei nuda in barca a vela, alla mia mano tra le sue gambe, al sesso che abbiamo fatto in bagno quella notte prima di partire per Barcellona tornati a casa dal lavoro. Penso di non essere mai stato così felice in vita mia, di non aver provato quello che sento per lei per nessun’altra e settimana prossima compio 31 anni. Penso a tutto questo e la vedo fuori, appoggiata a una BMW nera che fuma una sigaretta, e la macchina è uguale identica a quella di mo padre anche se è impossibile perché non siamo nel 1987. «Non voglio stare con nessuno, solo con te», le ho detto l’altro giorno mentre pigramente, seduti ai tavolini di una caffetteria hipster che ha appena aperto e si chiama Santeria, ci riprendevamo dalla sbronza della sera prima con indosso entrambi gli occhiali da sole. Poi ho ignorato le rughe di sospetto che si sono formate sul suo volto ed evitandole di dover rispondere di colpo mi sono tolto gli occhiali da sole e le ho dato un bacio appassionato.
Di quel periodo ricordo tutto: noi due perennemente avvinghiati per la maggior parte del tempo nudi nel grosso divano letto in sala, i litri di champagne consumati, i ritorni a casa dopo i week end in barca a vela o le vacanze in Grecia
L’appartamento in via Amedeo d’Aosta dove siamo andati ad abitare era praticamente già completamente arredato con mobili su misura mischiati a pezzi Ikea e a piccoli elettrodomestici. Su tutti spiccano una serie di oggetti firmati Alessi, le luci di Artemide e quattro sedie di Anonima Castelli. Ofelia ha portato con sé solamente una piccola cassettiera giapponese recuperata dalla cantina di sua sorella e dei cuscini ultracolorati di Paboy Bojang, un collettivo fondato da un giovane designer originario del Gambia di base a Napoli che offre lavoro sicuro a rifugiati e migranti. Ogni tanto la sento distante e quando le chiedo cosa c’è che non va continua a tirare in ballo la sua famiglia. Io invece continuo a volerla trascinare sul grosso divano letto in sala ma lei ogni volta rifiuta di seguirmi promettendomi: «Un momento, un momento e arrivo…». Poi sono immagini di me che preparo al computer la playlist per il mio programma in radio, lei che butta giù un paio di bicchieri di champagne con indosso solo un tanga anche se fuori si gela e in giro per la casa ci sono un sacco di paia di converse, delle scarpe nere con il tacco e i nostri vestiti sparsi dappertutto.
«Io tutti i giorni compero il giornale/Non solo per il cinema e lo sport/Ma anche per cercar monolocale/Sia pure senza tutti i comfort/Perché voglio portarti in una casa/E dentro a un letto vero insieme a me», canta Battisti, mentre il vinile blu elettrico gira sul piatto di casa nostra in Regina Giovanna a tutto volume, 12 anni dopo. Il pezzo si chiama Il Monolocale ed è tratto dall’album Giornata Uggiosa del 1980, l’anno in cui sono nato. Le celebrazioni per l’ottantennale di domenica scorsa mi hanno fatto venire voglia di comperare un disco di Battisti e l’ascolto di questo brano, unito alle notizie sul “Monopoli di Re Carlo”, che ho letto sul Corsera, riguardante il giro di sfratti e cambi di casa della famiglia reale, mi hanno riportato alla mente il periodo nel monolocale di via Amedeo d’Aosta, di quei quattro anni fantastici all’inizio della nostra storia prima di trasferirci qui nel 2014. Di quel periodo ricordo tutto: noi due perennemente avvinghiati per la maggior parte del tempo nudi nel grosso divano letto in sala, i litri di champagne consumati, i ritorni a casa dopo i week end in barca a vela o le vacanze in Grecia, i suv con le targhe svizzere parcheggiati sotto la nostra finestra e soprattutto il commiato, dopo l’ultimo anno in cui mi ero rifiutato di pagare l’affitto alla finanziaria lussemburghese alla quale, oltre ai 10 mila euro di debito, avevo lasciato come mio ricordo uno stronzo gigante nel frigorifero.