«Il lavoro dei sogni? È licenziarsi. Licenziarsi è il trend del momento, il sogno di tutti, soprattutto i più giovani, ma non solo. Forse anche stressati da una vaga sensazione di fine-di-mondo, tra catastrofe climatica, guerra, guerre culturali e politiche demenziali». Scrive così, in maniera provocatoria ma particolarmente sagace, Michele Masneri, in un articolo apparso sulla prima pagina del Foglio, commentando tra le altre cose anche un libro appena uscito per Einaudi di Francesca Coin, intitolato Le grandi dimissioni, dal sottotitolo particolarmente esplicativo: il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita.

Licenziarsi o essere cacciati, due facce della stessa medaglia, che fanno tornare in mente due dei casi più dibattuti sui quotidiani e sui social questa settimana, che vanno da Luis Sal che pianta in asso Fedez e arrivano fino a Paolo Maldini, licenziato in tronco dal nuovo proprietario del Milan Gerry Cardinale. Penso a queste cose senza alcun senso mentre dietro una consolle improvvisata metto i dischi in una galleria d’arte ricavata da un ex concessionaria alla prima personale di un noto writer milanese. Sulla vetrata all’ingresso c’è scritto MAGNITUDE a caratteri cubitali. Indosso un paio di chinos blu mega sdruciti, una t-shirt bianca con sopra scritto LA HAINE e un paio di converse scannate. Non mi tolgo mai per tutta la serata gli occhiali da sole. Davanti a me ci saranno più o meno 300 persone: una massa ribollente di alcol, brusio e pubbliche relazioni. Un pugno di camerieri, sudatissimi e stretti in immacolate camicie bianche ormai fradice, sgusciano tra la folla con in mano vassoi d’argento zeppi di finger foods e di bottiglie di Krug, Cristal, Nastro Azzurro e vodka Belvedere. Nel mucchio puoi riconoscere alcuni componenti del jet-set dell’hip-hop e autentiche leggende del writing milanese old school, mischiati a direttori di riviste, vecchi disc-jockey, galleristi, pubblicitari, copy di agenzie di comunicazione americane, alcuni ex punk, qualche musicista seminoto, giovani pittori, poeti e ultra-tatuati rampolli di dinastie millenarie.
Quando qualcuno mi chiede: «Ce l’hai ancora la barca?», rispondo come fa Simon Le Bon: «L’ho venduta. Mantenerla costava troppo. Quando mi serve preferisco affittarla». In realtà non ho mai posseduto una barca, però che ogni tanto l’affitto è vero, ed è questo il motivo per cui ora sono a bordo di un Sun Odyssey 410 con Ofelia, ormeggiati in rada, al largo di Cap Ferrat
Ogni tanto qualcuno passa a salutarmi, dato che sono pur sempre una celebrità. Stringo mani, scambio abbracci. Tutti mi chiedono come mai non c’è più la nostra trasmissione in radio. «Ci hanno cacciato, bro», rispondo. «Come Maldini e Massara?». «Si, fratè, una brutta storia». Alcuni si complimentano per la mia t-shirt dell’Odio: «Troppo stilosa, bro!». Poi i discorsi vertono sui miei racconti e un sacco di persone mi dicono che sarebbe ora ne facessi un libro. «Hai ragione, ci devo pensare seriamente», rispondo, mentre fingo indifferenza e mixo un vecchio pezzo di Kurtis Blow con una roba nuova di Travis Scott in coppia con Pharrell, intitolata Down in Atlanta, stringendo la cuffia tra orecchio e spalla. È stata una settimana particolarmente movimentata per la vecchia scena underground del writing questa, tra l’happening di stasera e la notizia, annunciata sui social e da una massiccia campagna pubblicitaria con enormi manifesti affissi in giro per la città, di una collabo fra Iuter e Dumbo. «Il king è tornato, bro!», mi dice Ale Cash, stringendo in mano un calice di champagne. Organizzata da un promettente gallerista allievo di Tony Shafrazi, storico mercante d’arte iraniano famoso per aver vandalizzato Guernica di Picasso e per aver lanciato a New York negli Anni 80 le mostre di artisti come Jean-Michel Basquiat, Kenny Scharf e Keith Haring, MAGNITUDE, è sicuramente l’evento mondano dove stasera a Milano chiunque vorrebbe essere. L’atmosfera è molto Anni 90 ma a differenza di allora è tutto molto sobrio, perché ormai siamo diventati grandi e i cattivi ragazzi, che una volta stavano incappucciati con le mani sporche di spray a bere flûte di champagne con i direttori dei magazine mentre nei cessi i loro compagni di crew spaccavano di tag i muri, sono ormai buoni padri di famiglia, professionisti affermati e star dello showbiz. Ciò nonostante in mezzo ai veterani spunta anche qualche ragazzo giovane e quasi non credo ai miei occhi quando in mezzo alla calca riconosco Sofia. «Che diavolo ci fa qui?», mi domando, mentre saluto mia cognata Zorny con il mio nuovo nipote bulgaro e faccio un selfie con Esa aka El PreZ, pioniere del rap in Italia al quale anni fa chiedemmo di cantare la sigla di Jim, la nostra trasmissione radiofonica estiva che andava in onda tutti i giorni all’ora di pranzo sulle frequenze di Radio Pop. Metto l’automix, lascio la mia postazione e le vado incontro. La sorprendo con in mano una fettina di kiwi guarnita da pezzetti di chèvre mentre con l’altra sorseggia un bicchiere di Bollinger. Indossa una camicia di lino a righe oversize, un paio di jeans stracciati e dei sandali Birkenstock. Quando mi vede sembra tesa, poi scoppia a ridere. «E tu, cosa ci fai qui?», le chiedo, scannerizzando la sala. «È la cosa più hip-hop che c’è a Milano, non potevo mancare. Sapevo di trovarti qui», mi risponde lei, sorridendo. «Non ci vediamo da un sacco», le dico. «Hai un’aria… voluttuosa», aggiungo, sfiorandole il collo e facendole scorrere un dito sul mento fino al labbro inferiore. Sofia sorride ancora, si scosta e poi, girandosi verso un tizio, mi dice: «Ti presento Brando, sono qui con lui. Ci ha invitato il curatore, vorrebbe fargli acquistare qualche opera». Indossa un paio di jeans, una maglietta manica lunga di dubbio gusto ma ha un’aria davvero strafica. Avrà al massimo 24 anni. Ricambia il cenno, io lo saluto alzando entrambi i pollici. «È una specie di nobile veneziano, usciamo da un po’, niente di serio ma per una volta sono io la morta di fame», mormora Sofia, con uno strano ghigno dipinto sul volto. «Senti, me ne vado», dico, «devo tornare a suonare». «Dove vai?», mi chiede, agguantandomi un braccio. «Non essere geloso!».

Domenica – PSICOSI. Quando qualcuno mi chiede: «Ce l’hai ancora la barca?», rispondo come fa Simon Le Bon: «L’ho venduta. Mantenerla costava troppo. Quando mi serve preferisco affittarla». In realtà non ho mai posseduto una barca, però che ogni tanto l’affitto è vero, ed è questo il motivo per cui ora sono a bordo di un Sun Odyssey 410 con Ofelia, ormeggiati in rada, al largo di Cap Ferrat. Eravamo entrambi troppo esauriti ultimamente così l’altra mattina abbiamo deciso di squagliarcela e andare qualche giorno al mare, anche se il tempo non era un granché. Più che altro io non volevo rischiare di rimanere a Milano nel week-end della finale di Champions per non correre il rischio di vedere sfilare in città i caroselli dei tifosi dell’Inter. Ci siamo imbarcati a Imperia e fingendo di essere come Keith Richards e Anita Pallenberg abbiamo chiesto allo skipper di portarci nella baia di Villefranche-sur-Mer, un grazioso paesino della Costa Azzurra poco a sud di Nizza, lo stesso dove nell’estate del 1971 si rifugiarono gli Stones in fuga dal fisco inglese affittando la celeberrima Villa Nellcôte, dove si trasferirono in blocco per lungo tempo e registrarono uno dei loro album più incredibili: Exile On Main St. Cap Ferrat è un gioiello, quasi un sussurro dice qualcuno, incastonato fra la baia di Villefranche-sur-Mer e quella di Beaulieu. Ospita le ville più costose del mondo, ha ispirato i più grandi artisti e scrittori del Novecento, che vanno da Cocteau a Somerset Maugham, per esempio, che visse nella meravigliosa Villa Mauresque moltissimi anni della sua vita, fino alla morte. È proprio al largo di queste acque, tra l’altro, che l’obbiettivo di Daniel Angeli rubò il celebre scatto di un Gianni Agnelli completamente nudo che si tuffava dalla sua barca a vela.
Al Bar Ristorante Le Cadillac, abbiamo iniziato a parlare di noi, delle nostre fatiche, dei nostri fallimenti, dei nostri progetti futuri, singoli e di coppia. La chiusura del locale che aveva preso in gestione con le sue amiche durante il periodo del Covid e la cessazione improvvisa della mia trasmissione radio sono stati certamente negli ultimi anni i rospi più grossi che abbiamo dovuto ingoiare
I giorni a bordo sono trascorsi placidi. Con Ofelia stavamo in silenzio, sdraiati uno di fianco all’altra, sul ponte in tek a leggere con su gli occhiali da sole e se non trascorrevamo il tempo dormendo in cabina sottocoperta ogni tanto lo skipper ci portava con il tender a fare un giro a Monte Carlo. Poi domenica pomeriggio nel porticciolo di Saint Jean, a poche centinaia di metri dalla villa degli Stones, precisamente al 2 Avenue Jean Mermoz, al Bar Ristorante Le Cadillac, abbiamo iniziato a parlare di noi, delle nostre fatiche, dei nostri fallimenti, dei nostri progetti futuri, singoli e di coppia. La chiusura del locale che aveva preso in gestione con le sue amiche durante il periodo del Covid e la cessazione improvvisa della mia trasmissione radio sono stati certamente negli ultimi anni i rospi più grossi che rispettivamente abbiamo dovuto ingoiare. L’assoluto non-senso della gestione del tempo del nostro quotidiano è stato l’altro argomento che abbiamo messo sul piatto e pur non venendo a capo di nulla credo che la chiacchierata al Le Cadillac ci abbia fatto bene. «Dovresti parlarne con il tuo psicologo», mi ha detto Ofelia a un certo punto, «più che altro per metabolizzare. La radio ha contato molto per te in questi anni. Parlarne con qualcuno potrebbe esserti utile». Per molti anni ho sempre creduto, forse grazie al mio passato vandalico, che l’oscurità ci aiuti a essere noi stessi. Le coppie scelgono ristoranti scarsamente illuminati per il loro primo appuntamento, i terapisti chiudono le tende nei loro uffici, osiamo ballare solo in discoteche buie, preghiamo nella semioscurità. Ofelia mi aiuta costantemente e spesso senza ricevere nulla in cambio a illuminare parte di questa oscurità. Trovo il suo aiuto fondamentale per la mia esistenza. Da solo non sarei in grado di andare avanti e probabilmente non mi sarei salvato da quella vita sregolata ed eccessiva che lentamente mi stava strangolando. Ogni tanto pensiamo di andarcene, di trasferirci lontani da tutti e da tutto, il che in prospettiva pone un problema opposto. È davvero l’isolamento la soluzione? Forse prima di prendere una decisione così radicale bisognerebbe provare a seguire il consiglio di Francesca Coin e concederci il tempo di riprenderci la nostra vita.