Se c’è una cosa che probabilmente tutti hanno capito dell’Afghanistan è che nessuno ha mai capito nulla dell’Afghanistan. La guerra dei 20 anni degli Stati Uniti, supportati dalla Nato, si è conclusa più che con una ritirata, con un vero e proprio disimpegno nella convinzione che, come ha detto Joe Biden nel suo discorso alla nazione, «nessun ammontare di forza militare potrà mai avere come effetto un Afghanistan pacifico, stabile e unito». Il Presidente americano ha citato anche l’espressione «cimitero degli imperi», un soprannome, peraltro storicamente errato, che il Paese si sarebbe guadagnato mettendo a dura prova le potenze che hanno tentato di invaderlo. Negli ultimi anni l’Afghanistan è stato raccontato in centinaia di saggi storico-politici, ma sono tanti i romanzi che hanno tentato di narrare la storia di una nazione ferita attraverso la sua gente e le sfide quotidiane. Cercando una chiave di lettura spesso sfuggita alle grandi analisi geopolitiche.
Khaled Hosseini, ma non solo
È accaduto negli Anni 80 quando lo scrittore inglese, ma discendente da una nobile famiglia afghana, Idries Shah pubblicò il romanzo epico Karakush (uscito ai tempi per l’editore italiano Reverdito) che raccontava le gesta della resistenza contro l’invasione sovietica. Scritto nel 1986, il libro era una denuncia contro la brutalità degli invasori e dava un quadro realistico della forza, militare e ideologica delle tribù che resistevano, facendo intravedere la sanguinosa debacle sovietica.
Nessun autore afghano però ha avuto più successo in questi anni di Khaled Hosseini, nato a Kabul e fuggito negli Stati Uniti nel 1980 dopo l’arrivo delle armate sovietiche. Il suo primo romanzo Il cacciatore di aquiloni (Piemme) del 2003 è stato un bestseller internazionale. Un racconto sull’amicizia tra due ragazzi della capitale, Amir e Hassan, intriso di violenza e orrore e calato in una realtà sconvolta non solo dalle guerre, ma anche dall’odio atavico tra etnie. Amir scapperà in America, ma il senso di colpa nei confronti dell’amico legato a un episodio dell’infanzia, segnerà la sua vita. Hosseini ha ripetuto il successo con il suo secondo, e se possibile più sconvolgente, romanzo, Mille splendidi soli, uscito in Italia nel 2007 sempre per Piemme. Qui le protagoniste sono due donne, Mariam e Liala, che si troveranno unite in matrimonio con uno stesso uomo, egoista e crudele. Il vero nucleo della vicenda è la tragedia della condizione femminile sotto il regime dei talebani, spiegata meravigliosamente in una frase che pronuncia il padre di una delle due: «Imparalo adesso e imparalo bene, figlia. Come l’ago della bussola segna il Nord, così il dito accusatore dell’uomo trova sempre una donna cui dare la colpa. Sempre. Ricordalo, Mariam».
Qais Akbar Omar, il traduttore diventato scrittore
Qais Akbar Omar è uno scrittore di Kabul che nel 2001 non aveva ancora 20 anni. Proveniente da una famiglia di tessitori di tappeti che durante il regime dei talebani faceva lavorare segretamente le donne, è poi diventato traduttore e interprete per gli americani, ha finito gli studi a Boston, per poi pubblicare un romanzo di memorie A Fort of Nine Towers tradotto in 20 lingue, ma mai stampato in Italia. Da noi è uscito però nel 2014 Leggere Shakespeare a Kabul (Newton Compton) scritto con il giornalista Stephen Landrigan che racconta, tra reportage e ricordi personali, il lavoro di alcuni cooperanti internazionali che decidono di realizzare una messa in scena dell’opera shakespeariana Pene d’amor perduto. La prima difficoltà è quella di trovare il testo, visto che l’opera non è mai stata tradotta nella lingua che loro hanno scelto per la rappresentazione, il dari. Una storia di resistenza, ma anche di come la cultura possa unire mondi ed etnie diverse.
In this book Qais Akbar Omar describes the horrors his family experienced when the Taliban first took over Kabul after the Soviet withdrawal. It is heartbreaking and horrifying to think that this hideous scenario is about to be replayed. pic.twitter.com/24VfQaJfyG
— Janice Blake (@JanzaBlake) August 14, 2021
Bitani, testimone del dramma afghano
«Ho lasciato le armi per impugnare la penna», così inizia L’ultimo lenzuolo bianco romanzo autobiografico di Fahrad Bitani, uscito in una prima edizione nel 2014 e riedito da Neri Pozza nel 2020. Bitani è figlio di un generale che combatteva per Najibullah, l’ultimo presidente afghano che nel ’96 i talebani torturarono, uccisero, trascinarono per le strade di Kabul e appesero a un palo della luce. Si trasferisce poi con la famiglia in Iran per intraprendere la carriera militare che inizia con una formazione all’Accademia di Modena nel 2006. Dopo un attentato subito nel 2011 decide di lasciare la divisa e dedicarsi alla scrittura e al dialogo interculturale. L’ultimo lenzuolo bianco è una testimonianza vivida e diretta del dramma di un Paese attraversato da troppe guerre e da troppe vendette.
Mohammadi, 14 racconti per restituire la tragedia di un Paese
I fichi rossi di Mazar-e Sharif (Ponte33) raccoglie 14 racconti che cercano di dare un senso e una voce corale alla tragedia. L’autore, Mohammad Hossein Mohammadi è un afghano nato nel 1975 che ha vissuto gran parte della sua infanzia come profugo in Iran, per poi tornare in patria e cercare di promuovere scrittori locali. Mazar-e Sharif è la città natale dello scrittore, la quarta dell’Afghanistan come popolazione e nodo strategico per il nord del Paese, e da qui inizia un percorso empatico e ricco di storie, sfumature e diversi punti di vista.
Atiq Rahimi, tra letteratura e cinema
Descritto come un racconto di ampio respiro dipinto su una tela molto piccola, Terra e Cenere (Einaudi) di Atiq Rahimi è un romanzo dai toni favolistici tanto breve quanto intenso. La scena è ambientata durante l’occupazione sovietica: un nonno e un nipote, scampati a un attacco russo che ha colpito il loro villaggio, vanno alla ricerca del padre del ragazzo. L’autore, esule a Parigi sin dagli Anni 80, è anche regista e ha adattato il romanzo per lo schermo, vincendo un premio al Festival di Cannes del 2004. L’anno scorso Einaudi ha pubblicato in Italia il nuovo romanzo di Rahimi, I portatori d’acqua, ambientato tra Parigi e Kabul l’11 marzo del 2001, il giorno in cui i talebani distrussero con l’esplosivo i “blasfemi” Buddha giganti di Bamiyan. Sei mesi esatti prima dell’attentato alle Torri Gemelle.