La Libia potrebbe finalmente porre fine a 10 anni di caos con l’elezione regolare di un nuovo presidente. Il condizionale però è d’obbligo vista l’instabilità dell’ex Jamahiriya. Se gli Stati Uniti insistono sul fatto che il voto dovrebbe tenersi a ogni costo, in Europa c’è chi teme che le divisioni politiche siano troppo forti perché tutti accettino la legittimità del risultato, qualunque esso sia. Una data intanto è già stata fissata, almeno sulla carta: le elezioni dovrebbero svolgersi il 24 dicembre. Manca però ancora un accordo sulla legge elettorale. Un’altra incognita è rappresentata dal governo provvisorio, nominato dalle Nazioni Unite per gestire le operazioni prima delle elezioni, che potrebbe cercare di capitalizzare l’impasse per rimanere al potere. Nel frattempo migliaia di truppe straniere, finanziate principalmente da Turchia e Russia, sono ancora in servizio.

Per Patrick Wintour, esperto diplomatico del Guardian, «l’affare rischia di diventare un altro fallimentare tentativo di ricostruire una nazione, dopo quanto successo con l’Afghanistan». Sulla stessa linea Tarek Megerisi, specialista della Libia presso il Consiglio europeo per le relazioni estere, che ha dichiarato: «Alla Libia mancano istituzioni politiche con indiscussa legittimità popolare. Questo crea un’arena politica in cui le élite in carica si sentono autorizzate a sottrarsi alle responsabilità loro affidate di scrivere una nuova Costituzione e porre fine al periodo di transizione. Sono invece concentrate su lotte intestine per il potere e sul “saccheggio” delle casse pubbliche».
Elezioni in Libia, le tappe dell’odissea
In pubblico le potenze occidentali stanno esercitando la massima pressione affinché le elezioni si svolgano. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha avvertito che, se il voto non si dovesse tenere, sarebbe a rischio la stabilità di tutta la regione. Anche gli Stati Uniti, attraverso l’inviato in Libia Richard Norland, e la Francia di Emmanuel Macron spingono perché le urne si aprano nella data stabilita.
I ritardi della Camera dei rappresentanti nel discutere la legge elettorale
Le operazioni però non sembrano semplici. La Camera dei rappresentanti, il ramo del parlamento con sede a Tobruk – nell’est del Paese – avrebbe dovuto emanare due mesi fa una legge elettorale, ma i suoi membri la stanno ancora discutendo. Nel frattempo, la norma che fissa la data delle elezioni presidenziali il 24 dicembre è stata respinta dalla commissione elettorale libica. Lo stesso ha fatto anche la Camera alta del parlamento, l’Alto consiglio di Stato (una sorta di Senato libico con sede a Tripoli), sostenendo che si dovrebbero tenere solamente le elezioni parlamentari mentre le Presidenziali dovrebbero essere indette solo dopo un referendum sulla Costituzione.

La Camera ha poi deciso di votare la sfiducia al governo di transizione guidato da Abdul Hamid Dbeibah, accusato di aver speso circa 9 miliardi di euro (51 miliardi di dinari) in tre mesi senza aver migliorato le condizioni del Paese. Anzi, imponendo alla Libia accordi con altri Stati per ulteriori 15 miliardi. Ne è nato un duro scontro con il primo ministro a cui è seguita una manifestazione di massa a Tripoli, contro la Camera accusata di non volere la pace.
Libia, Il premier a interim Dbeibah e le preoccupazioni occidentali
A febbraio Dbeibah era stato scelto a sorpresa dalle Nazioni Unite per guidare il governo provvisorio. Secondo alcuni esperti però, vorrebbe sfruttare l’impasse elettorale per acquisire più consenso e mantenere il potere in caso di rinvio delle elezioni del 24 dicembre. In un discorso pubblico a Tripoli il premier aveva già annunciato un aumento degli stipendi per gli insegnanti e un regalo di 3.500 euro per i giovani che decidono di sposarsi. Dbeibah, ingegnere e membro di una importante famiglia di Misurata, è legato a Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito dell’ex dittatore Muammar (deposto e ucciso nel 2011) che di recente ha dichiarato di voler ritornare sulla scena politica libica.

In questo caos, le diplomazie occidentali stanno vagliando dei piani di riserva nel timore che, se le elezioni non dovessero svolgersi, il processo andrebbe in tilt e Russia e Turchia, con le loro truppe, consoliderebbero il loro potere nel Paese (e sul suo petrolio). Senza accordo sul voto la comunità internazionale avrebbe due alternative: imporre tramite l’Onu una nuova legge elettorale (le Nazioni Unite ne avrebbero diritto sulla base delle risoluzioni emanate dal Consiglio di sicurezza), oppure prendere atto dell’impasse, accettare il programma di stabilizzazione proposto dal governo ad interim e provare di nuovo, in futuro, a creare le condizioni per svolgere le elezioni.
Libia, gli altri protagonisti: dal generale Haftar al figlio di Gheddafi
Intanto si scaldano le candidature. Khalifa Haftar, il capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, ha annunciato che si candiderà alla presidenza prendendosi tre mesi di aspettativa come capo dell’Enl. Considerando che però, non più tardi di 18 mesi fa, il generale provò inutilmente a conquistare Tripoli, difficilmente avrà chance di essere eletto. All’epoca, il primo ministro riconosciuto dalle Nazioni Unite era Fayez al-Serraj. Altri candidati potrebbero essere l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, capo della sicurezza a Tripoli, e come detto Gheddafi junior. Dovrebbe candidarsi anche Aref Al Nayed, ex ambasciatore negli Emirati. Alla fine, come sottolineato dal Guardian, il rischio è che «le elezioni potrebbero dipendere da chi paga di più le milizie per occupare il maggior numero di urne».