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Andrea, dj di musica jazz, chiede al direttore della sua radio di essere inviato in Libano per raccontare il boom del Captagon. Ma in realtà vola a Beirut per tutto un altro motivo. Pentendosene. Il racconto della settimana.

6 Novembre 2021 09:586 Novembre 2021 18:54 Andrea Frateff-Gianni
il racconto sul Libano: tra captagon e attentati

Giovedì 4 novembre 2021. Tre del pomeriggio. Sono spaparanzato sopra un divano color sabbia, in mutande, nell’attico al 14esimo piano del palazzo con la facciata in vetro a Gemmayzeh, una zona abitata da gente molto ricca, nel centro del quartiere cristiano di Beirut. Leggo l’ultimo libro del filosofo francese Bernard-Henry Levy e fumo un joint in solitaria. Ogni tanto placo l’arsura con dei sorsi di tè freddo al limone ghiacciato, dubbioso se scendere in strada a comperare una crema dopo sole o meno. Tiro dal joint in maniera ossessiva, guardo la carta dello spino che brucia e sono in preda di allucinanti sbalzi d’umore. Sulla terrazza dell’attico c’è addirittura una piscina, in vetro, sospesa nel vuoto, che mi provoca un attacco di panico solo ad immaginarmici dentro, a mollo.

Spiegami per quale motivo dovrei mandare un dj di un programma di musica jazz in Libano per un servizio?, mi ha chiesto stupito l’altro giorno il direttore della radio

Arrivato ieri da Milano, via Ginevra, mi sembra di stare qui da una settimana. Sempre in casa. A dormire, bere, leggere e fumare. Sono qui per un servizio commissionatomi dalla radio per raccontare l’incredibile esplosione di Captagon, un’anfetamina sintetizzata in laboratori clandestini, che ha causato un caso diplomatico gigantesco lo scorso week end quando quattro dei regni tra i più importanti del Golfo hanno rotto in successione le proprie relazioni con il Libano, vietando le importazioni dal paese di qualsiasi cosa. Tutto ciò in un momento in cui il Libano sta attraversando la sua crisi più grave dal 1850, i prezzi di alcuni prodotti sono triplicati e gli stipendi sono sempre più bassi.

«Spiegami per quale motivo dovrei mandare un dj di un programma di musica jazz in Libano per un servizio?», mi ha chiesto stupito l’altro giorno il direttore della radio. «Perché innanzitutto sono un giornalista professionista iscritto all’albo e poi, perché conosco Beirut come le mie tasche», ho risposto mentendo. Così sono riuscito a convincerlo, ho comperato al duty-free di Linate un taccuino moleskine e l’ultimo libro di BHL e sono partito. In realtà di Medio Oriente io non ne so nulla ma la mia famiglia ha affari a Beirut da parecchi anni, o almeno li aveva, e posso ancora contare su diversi agganci. Il fatto che Lucilla, la mia ex fidanzata, sia qui in questo stesso periodo per registrare un podcast è una pura coincidenza. Coincidenza tra l’altro della quale non ho fatto menzione né con il direttore della radio né con mia moglie prima di partire.

Invidiavo quella vacuità, era l’opposto del bisogno d’aiuto o della sofferenza o del desiderio o della vergogna

«Hai potenziale», disse Lucilla. Un flashback di Ios, Cicladi, Grecia. 1998. Oziavamo davanti alla piscina del Far Out, ci dividevamo una Red Bull, con gli occhiali da sole, gli occhi vitrei, un’arancia ancora intatta sul tavolino davanti a noi. Era forse l’ultimo giorno delle vacanze e aspettavo solo che la macchina del camping asciugasse la biancheria e intanto lei la smetteva di giocherellare con la mia matita solo per annusare un’orchidea che le avevo portato in tenda la notte prima. «Dove cavolo sei riuscito a trovarla un’orchidea qui a Ios», mi chiedeva perplessa mentre io le ripetevo: «Non voglio un rapporto serio». E lei mi fissava come se fossi matto, come se, tanto per cominciare, non fossi nemmeno in grado di averlo, un rapporto serio. «Hai potenziale», disse Lucilla. Un flashback di Portofino, Liguria, Italia. 1999. Le perdonavo tutti i difetti perché era semplicemente “troppo bella”. All’inizio era così inespressiva e indifferente da farmi desiderare di saperne di più sul suo conto. Invidiavo quella vacuità, era l’opposto del bisogno d’aiuto o della sofferenza o del desiderio o della vergogna. Ma Lucilla non era mai felice, e dopo un anno tormentato di prendi e fuggi aveva già raggiunto uno stadio del rapporto in cui non le importava più niente di me o delle idee che potevano venirmi in mente.

I miei amici sconsigliano di mangiare carne, evita di ordinarla nei ristoranti, il problema della corrente è insormontabile

Venerdì 5 novembre 2021. Sei di sera. Siedo fuori ai tavolini a bordo piscina del Saint George, glorioso albergo costruito in riva al mare, sulla baia di San Giorgio, di cui porta il nome (naturalmente in francese), che già negli Anni 30 ospitava sceicchi, re, principi, emiri, presidenti, attrici, registi, miliardari annoiati o in fuga da guai giudiziari, capi mafia, ex criminali nazisti e famosi agenti segreti. Una cornice di tutto rispetto per il rendez-vous con Lucilla che come mi vede sbianca improvvisamente, sgranando i suoi splendidi occhi verde naviglio. «Cosa cazzo ci fai qui?», ringhia. «Uh, ehi, bella». «Cristo santo, cosa ci fai a Beirut?», si guarda in giro in preda al panico. «Che scherzo del cazzo è questo?». «Ehi, calmati, bella, stai tranquilla».
«Tranquilla un cazzo», sbotta. «Cristo, tu dovresti essere a Milano, cosa ci fai qui?». «Sono a Beirut per lavoro, faccio il giornalista, credimi, scrivi su Google ‘Andrea Frateff-Gianni’ e vedrai che non mento», dico e mi avvicino, il che la spinge un passo indietro che la fa quasi cadere dalla sedia. «Piantala», dice gettando un’occhiata spaventata alle mie spalle e costringendo anche me a voltarmi. «Davvero, vattene. Non posso farmi vedere con te in questo posto». Lucilla mi pare leggermente paranoica, poi in qualche modo riesco a calmarla, ordino due martini vodka agitati e non mescolati come fossi James Bond e inizio a parlarle di me, del servizio sull’anfetamina che devo fare per la radio e poi, dopo, abbastanza sicuro di me, ma senza impudenza, bello e scarmigliato nel mio completo blu targato Giorgio Armani le domando: «Ti sei calmata? Ricomincerai a dare in escandescenza?». «Solo se mi dici come hai fato a trovarmi, e che cosa vuoi da me», risponde gelida.
«Semplice, ho chiamato tutti gli alberghi della città e poi – bum – il Saint George». Una lunga pausa in cui si limita a fissarmi sbalordito.

captagon e crisi economica: il racconto sul Libano
L’ambasciata degli Emirati Arabi a Beirut (Getty Images).

«Cosa c’è?», chiede. «Cosa succede?». «Niente, bella, parlami un po’ di Beirut. Son qui per lavoro te l’ho detto».
Così Lucilla si scioglie, inizia a parlare del podcast che sta producendo e della situazione attuale del Libano, in crisi nera, isolato dal resto del mondo, dove l’elettricità c’è qualche ora solo la sera e la mattina, che è senza governo da più di un anno in un momento nel quale più della metà della popolazione è sotto la soglia di povertà. Da principio riesco a farle credere di essere veramente interessato e concentrato su quello che racconta, e in effetti qualcosa registro, ma per la verità l’ho già sentita questa storia. Poi però, mentre parla, Lucilla mi si avvicina, le cose subiscono un’accelerazione e io di colpo mi sento sollevato. «I miei amici sconsigliano di mangiare carne, evita di ordinarla nei ristoranti, il problema della corrente è insormontabile», aggiunge e poi prosegue: «Chi riesce si arrangia con generatori privati e oltretutto non c’è benzina in tutta la città». Mentre la ascolto mi concentro silenziosamente su di lei, la trovo bellissima e mi rendo conto di essere stato attivato. La fisso per più di un’ora, faccio le domande giuste, la guido in certe zone, fingo le giuste reazioni e a volte nei miei occhi c’è una tristezza che per metà è fasulla e per metà è autentica. Ad un certo punto ho la faccia così vicino alla sua che devo per forza sporgermi a baciarla e le sue labbra hanno il sapore delle fragole. «Non farlo Andre, ti prego», mormora. «Non posso.
Sai che davanti a te non riesco a resistere», sussurro. Nemmeno un’ora più tardi Lucilla è sdraiata sul divano dell’attico al 14esimo piano del palazzo con la facciata in vetro a Gemmayzeh, tra le braccia un cuscino color sabbia, i piedi nudi. Io seduto di fianco a lei brucio con l’accendino una pallina di hashish nel tabacco Philip Morris. Respinge con poca convinzione i miei assalti e ci rotoliamo sul divano color sabbia. Lei però non vuole spogliarsi e io premo il cazzo fasciato dai pantaloni del mio completo Giorgio Armani sulle cosce e sui suoi jeans, prima che mi chieda in maniera decisa di accompagnarla giù alla macchina e di colpo è quasi mezzanotte.

Questo è quello che resta del Libano, un Paese che un tempo era la Svizzera del Medio Oriente e oggi è il Nuovo Afghanistan

Sabato 6 novembre. Pranzo. Sono in un ristorante ad Hamra, davanti al Piccadilly Theatre, l’insegna luminosa del locale ha perso alcune lettere, parlo con Roger, o almeno è così che dice di chiamarsi, un funzionario dell’ambasciata saudita che sono riuscito a contattare tramite amici diplomatici di mio padre. Roger racconta che la rottura delle relazioni tra i Regni del Golfo e il Libano è causata più che dal traffico del Captagon dal caos politico che imperversa nel Paese e che tutto questo casino è colpa di Hezbollah, il gruppo armato finanziato dall’Iran e rivale dei sauditi. Mentre lo ascolto e chiedo un’altra birra a un cameriere pieno di cicatrici sulle braccia vengo come investito da un rimbombo di tuono che fa esplodere tutte le vetrate del ristorante. Il rumore del vetro che si frantuma è un preludio alle urla. Il panico. Improvvisamente è un fuggi fuggi generale, fuori dal ristorante il cielo è coperto da una coltre di fumo nero, l’intera facciata del palazzo di fronte è saltata in aria. Il corpo di un uomo penzola dal secondo piano intrappolato in un ammasso di travi d’acciaio. Cerco di scappare, zoppicando, e scavalco una donna, completamente nera, che si contorce a terra per il dolore tra urla disumane. È l’apocalisse. «Volevi un servizio? Bè te lo riassumo in due parole. Questa è Beirut», dico al telefono, qualche ora dopo al direttore della radio, «e questo è quello che resta del Libano, un Paese che un tempo era la Svizzera del Medio Oriente e oggi è il Nuovo Afghanistan», prima di salire su un aereo per via direttissima e togliermi dalle scatole il più velocemente possibile.

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