Un silenzio che non è stato certamente di quiete, bensì di preludio a una tempesta sui cieli di via Bellerio. La Lega scende sotto la doppia cifra e arranca intorno al 9 per cento, con la magra consolazione di aver evitato l’onta del sorpasso anche di Forza Italia, auspicato da Silvio Berlusconi. Matteo Salvini, che si è manifestato solo con un tweet appena usciti gli exit poll (ha esultato per la vittoria del centrodestra), deve così archiviare la leadership in solitaria e assoluta, benché la sua tentazione sia da sempre il ritorno alle origini al populismo che aveva portato alla poderosa crescita dello scorso decennio. A cominciare dalle battaglie contro l’Europa, compreso l’abbandono della moneta unica. Ma qualsiasi cosa accada, si apre una fase nuova, sconosciuta alla Lega nella sua formazione attuale. Troppo pesante il tonfo per far finta di niente: rispetto al 2018, i voti sono dimezzati, il paragone con le Europee del 2019, quando conquistò il 34,3 per cento, è clamoroso. Per la Lega è un ritorno al punto di partenza, molto vicino al risultato del 2008, all’epoca in cui era Berlusconi il padrone assoluto della coalizione di centrodestra. Adesso è Giorgia Meloni che rende la Lega un partito-vassallo con l’aggravante che nel 2008 la Lega era in ripresa rispetto alle precedenti Politiche, a differenza della bocciatura giunta il 25 settembre che indica una discesa vertiginosa.

Svanito il legame con il Nord, troppo debole il vagito autonomista
C’è, tuttavia, un ulteriore elemento: oggi la Lega non è più il Carroccio di Umberto Bossi, ma la «Lega per Salvini premier». Un partito che più personale non si può, fin nel nome. In queste ore nessuno dal quartier generale leghista si è lasciato sfuggire una parola, nemmeno per sbaglio, ma nelle scorse settimane – annusando l’aria di tracollo (senza immaginare le dimensioni) – qualche fonte parlamentare aveva evidenziato questo aspetto. Quello di un partito che fatica ad avere anche un legame con il Nord, avendolo rimosso dalla denominazione, oltre che dal programma elettorale, quindi estremamente legato alla figura del leader. Ed è stato troppo debole il vagito autonomista, sventolato da Salvini durante la campagna elettorale. Ora i presidenti di Regione, in primis Luca Zaia (Veneto) e Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia) presenteranno il conto, sottolineando sonora batosta. D’altra parte ai fedelissimi di Salvini viene fornita l’argomentazione di un risultato pessimo anche nelle regioni roccaforti, governate proprio da Zaia e Fedriga: Fratelli d’Italia ha più che doppiato la Lega. Un braccio di ferro, dunque. Ma i governatori, tra cui anche Attilio Fontana, hanno a loro volta da ribattere: sono stati costretti a digerire delle candidature poco condivise, se non imposte dal segretario federale. Hanno, in sintesi, trangugiato il boccone amaro per vedere cosa sarebbe accaduto.

Giorgetti considerato responsabile della svolta “moderata”
Sullo sfondo resta Giancarlo Giorgetti, da sempre l’uomo che tiene i contatti con i potentati economici del Paese, che sarà messo all’indice dagli uomini di Salvini. Il leader lo considera responsabile di aver portato la Lega alla svolta “moderata”, ossia all’ingresso nel governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Sarà questa la linea difensiva dell’ex Capitano: aver donato il sangue a un esecutivo per il “bene del Paese”, lasciando spazio alla concorrenza interna, incarnata da Fratelli d’Italia. Fino al crollo verticale di domenica. Anche il ministro dello Sviluppo economico ha una carta da rovesciare sul tavolo: quella di rinfacciare al leader la scellerata decisione di far cadere l’esecutivo, in piena estate, pensando fosse un’occasione offerta dal Movimento 5 stelle. Invece si è trasformata in una tragedia politica. Un quadro che mette Salvini in un angolo, silenzioso per così tante ore come mai non si era visto, nel tentativo di elaborare una strategia. A ulteriore conferma che la Lega sarà diversa rispetto agli ultimi anni.