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Uno schiavo leva l’altro

In principio furono i lavoratori dei call center poi gli immigrati piegati dai caporali. Quindi i rider e gli addetti della Amazon Economy. Ogni decennio ha i “suoi” sfruttati che però vengono dimenticati non appena sorge una nuova emergenza.

1 Novembre 2021 08:071 Novembre 2021 08:21 Ulisse Spinnato Vega
lavoro: perché ci dimentichiamo delle vecchie schiavitù

In principio furono gli addetti ai call center. Simbolo incarnato della precarizzazione del lavoro che uccide le competenze, comprime i salari, nega diritti e tutele. Il tutto ben infiocchettato sotto l’etichetta scintillante della flessibilità globalizzata del nuovo millennio, il totem che abbagliò anche la sinistra europea (e italiana) protesa all’inseguimento di fantomatiche “terze vie” che hanno finito per mandare in coma la socialdemocrazia. Eppure, si sa, ogni stagione ha i suoi “schiavi moderni” da raccontare, su cui dibattere e poi magari legiferare, con il sistema mediatico che gonfia il fenomeno di turno, lo viviseziona, lo “mastica” con le mascelle dell’emotività stereotipata e poi lo sputa via, pronto a metterne in bocca un altro.

L’epopea dei call center, simboli (dimenticati) della coscienza di classe

Chiusa negli Anni 80 e 90 la stagione della lotta di classe e degli operai che non vanno in paradiso o dei muratori di Ken Loach umiliati dalle riforme della Thatcher, i lavoratori, spesso giovani laureati, impelagati nei call center divennero forse il primo emblema dello sfruttamento post-fordista, anche se all’inizio vivevano e li si raccontava per lo più aggregati in grandi numeri dentro asettici stanzoni. Le esternalizzazioni e le delocalizzazioni dei servizi, le paghe da fame e spesso parametrate sui contratti chiusi o sugli appuntamenti ottenuti, i turni da incubo, i ritmi forsennati e la totale spoliazione di ogni riferimento al valore individuale: erano i tempi, per dire, di Tutta la vita davanti, il film di Paolo Virzì che raccontò in modo efficace le dinamiche e i meccanismi del lavoro con cuffietta e microfono. L’interesse dei media era altissimo e sembrava che quegli stanzoni potessero diventare le nuove fabbriche, humus di una nuova coscienza di classe con venature generazionali. Macché: poi arrivò qualche contentino – la trasparenza sul Paese da cui il servizio viene erogato, le clausole sociali che in teoria salvaguardano gli addetti nei passaggi di commessa o nei cambi di appalto – e il tema scomparve dai radar. Così è capitato che persino la recente protesta dei dipendenti Almaviva di Palermo e Rende, impegnati nei servizi di call center della morente Alitalia, si sia aperta e chiusa con un’ipotesi di accordo nella semiclandestinità.

La piaga del caporalato, dal Sud alla Pianura Padana

Certo, conosciamo molto bene, e da anni, la piaga del caporalato agricolo e lo sfruttamento della manodopera straniera, soprattutto africana e spesso irregolare, negli agrumeti del Sud. Oppure il lavoro oscuro e tuttavia importantissimo degli indiani, molti dei quali Sikh, nell’Agro pontino o nel cuore della Pianura padana: in ragione della loro sensibilità, dedizione e relazione speciale con i bovini, infatti, hanno assunto un ruolo centrale nella filiera del Parmigiano Reggiano e pure in questo caso c’è un film di riferimento da vedere, Il vegetariano di Roberto San Pietro, regista allievo di Ermanno Olmi.

Le battaglie dei rider, i nuovi schiavi della gig economy

A un tratto, però, il digitale ha fatto irruzione nel mondo del lavoro, tutti si sono accorti del fenomeno della gig economy, il caporalato è diventato elettronico e i rider del settore food sono assurti a simbolo dello sfruttamento nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio. In giro per le nostre città in bici e raramente in scooter, di giorno e di notte, al freddo e al caldo, per ore seduti sui muretti con il telefono in mano, senza assicurazione, senza ferie e senza malattia, pagati a cottimo, incalzati da un capo che si è fatto app e da ritmi di consegna forsennati. Sembravano i servi della gleba dei nostri tempi, i più deboli e fragili. I più indifesi persino fisicamente, con le loro bike, in mezzo alle lamiere del traffico cittadino. Poi sono arrivati la pandemia, il lockdown e di botto abbiamo scoperto la loro importanza vitale, mentre scorrazzavano solitari per le strade deserte, improvvisi e involontari dominatori dei nostri spazi urbani.

lavoro: i nuovo schiavi cancellano i precedenti
Rider a Milano durante il lockdown (Getty Images).

I condannati al lavoretto

Nel frattempo, anche qui, le prime proteste sindacali e le sentenze dei tribunali del lavoro hanno iniziato a cambiare le cose: è passato il principio del riconoscimento di subordinazione per i platform workers e così anche i ciclofattorini hanno potuto beneficiare delle tutele di un contratto collettivo. Eppure rimane il problema di un “lavoretto” che per molti giovani formati o in via di formazione dovrebbe essere un riempitivo o una soluzione temporanea e poi invece si trasforma in una trappola che li vincola per anni o magari decenni. Anche in questo caso una go-pro sulla bicicletta può raccontare meglio di mille trattati: è così che è nato il documentario sulle consegne di cibo a domicilio Riders not heroes, ambientato nella Milano spettrale del lockdown.

È arrivato il turno dei lavoratori della Amazon economy

Ma il sistema mediatico passa e va, transitando come un uragano sull’emergenza di turno. Accende un riflettore, apre la piaga, ne spolpa gli aspetti emotivi e influenza sia il dibattito pubblico sia il legislatore. Poi punta su altro, seguendo logiche di mercato della notizia per lo più non coerenti con l’effettivo esaurimento di quel fenomeno o il raggiungimento di una soluzione. In termini di neuromarketing si parlerebbe di bias cognitivi della salienza, della disponibilità o della conferma. Fatto sta che anche i rider sono ormai démodé e adesso nuove figure sono entrate di diritto nella galleria degli “schiavi moderni”. Per esempio i lavoratori della logistica e del delivery, quelli della “Amazon economy”, che spesso sono dipendenti di opache cooperative e devono rispondere a un algoritmo, per cui hanno tempi di consegna così stretti e serrati che quasi nemmeno più si fermano a bussare al tuo citofono: ti lanciano direttamente il pacco in giardino o davanti al portone e corrono via. In apnea. E che dire delle colf e badanti dell’Est Europa? Uno di quei mestieri popolati da tante storie di sfruttamento, sulle quali la pandemia e l’obbligo di Green pass si stanno abbattendo come pioggia sul bagnato.

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La sociologa Chiara Saraceno riflette con Tag43: «Mi colpisce questo rapidissimo emergere di continue disuguaglianze, vecchie e nuove. Alcune impensabili un tempo: per esempio sta saltando la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale. Il rider per un verso è un lavoratore manuale che usa il suo corpo, ma deve anche saper usare una piattaforma. Le forme di caporalato si stanno estendendo e il lavoro, che un tempo era espressione della dignità, oggi è spesso esperienza di degradazione della dignità». L’esperta, che il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha voluto a capo del comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, poi punge: «Le condizioni sono cambiate e occorre riflessione, lavoro di intelligenza. Purtroppo i sindacati tirano fuori spesso vecchi strumenti. Invece servono nuove protezioni e un nuovo welfare, penso a forme di reddito di base che facciano da cuscinetto nei momenti di difficoltà. L’economista tedesco Günther Schmid ha immaginato, non a caso, una sorta di assicurazione di corso della vita, valida lungo tutta l’esistenza di un lavoratore o una lavoratrice».

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