«Mi chiamo Andrea Frateff-Gianni, con due effe finali trattino Gianni, che sì Gianni non è un nome ma il secondo cognome, perché ho due cognomi, io». Questa filastrocca ho imparato a ripeterla fin da piccolo, alle elementari e poi anche dopo, per tutta la vita, quando la gente mi domandava come cazzo mi chiamassi. Non mi sembra tanto difficile, ma fatto sta che il mio nome e cognome non lo capisce mai nessuno. Così sono costretto a ripeterlo anche adesso, di fronte a questa sventola bionda con gli occhi azzurri, di cui nemmeno io sinceramente ho capito il nome, ma che mi sta facendo il terzo grado dopo che qualcuno più in alto di lei le ha ordinato di convocarmi per un colloquio di lavoro al quale tra l’altro non avevo nessuna voglia di partecipare.
Siamo in una stanza di un palazzo patrizio del centro, che sulla facciata ha degli inserti liberty pazzeschi, su delle sedie di plastica Kartell, seduti uno di fronte all’altra, intorno a un tavolo di Cassina. «Mi chiamo Andrea Frateff-Gianni», mi verrebbe da dirle, a questa sventola bionda con gli occhi azzurri, «ho 42 anni di cui più della metà li ho passati a farmi come una scimmia: hashish, marijuana, skunk radioattiva, eroina, colla, lsd, ecstasy, mescalina, coca, anfetamina, ketamina, benzedrina, speedball, funghetti allucinogeni, mdma, oppio in supposta. Ora sono pulito però, da una vita a dirti il vero, a salvarmi è stata Ofelia, la mia fidanzata, vuoi che ti racconti come ci siamo conosciuti?». Ma in realtà le dico tutt’altro, perché ci tengo anch’io a fare bella figura, con questa sventola bionda con gli occhi azzurri, che sinceramente me lo ha già fatto diventare duro. Da un po’ le agenzie di comunicazione, e questa che mi ha chiamato è senz’alcun dubbio la numero uno a Milano, pescano tra i giornalisti per trovare qualcuno che possa produrre contenuti interessanti per i vari brand e che possa parlare direttamente al pubblico al posto dei giornali, che ormai detto tra noi, non li legge più nessuno.
Peccato che io non sia un giornalista ma al massimo un disc-jockey, come tra l’altro sta scritto sulla mia carta di identità, ma ciò nonostante sono un produttore seriale di contenuti che il più delle volte si rivelano strafichi
Dopo che Michele Lupi, ex direttore di GQ e Rolling Stone, ha assunto la carica di Men’s Collections Visionary per Tod’s e Matteo Persivale si è trasferito dalle stanze della redazione di via Solferino del Corriere della Sera a Gucci, tutti sono alla ricerca di figure del genere. Peccato che io non sia affatto un giornalista ma al massimo un disc-jockey, come tra l’altro sta scritto sulla mia carta di identità, ma ciò nonostante oggettivamente sono un produttore seriale di contenuti che il più delle volte si rivelano strafichi, sia per me che li propongo sia soprattutto per la gente che li riceve e successivamente li consuma. Scrivo di libri per due dei principali quotidiani italiani. Uno mainstream, il Messaggero, il più venduto a Roma. E uno tremendamente fighetto come il Foglio, che come giustamente mi ha detto tempo fa un mio amico avvocato, «raccontarlo a una cena con gli amici dei tuoi fa sicuramente bella figura». Se a questo aggiungiamo che ho anche una seguitissima rubrica di racconti su un giornale on line, che conduco una trasmissione radiofonica di jazz in FM da oltre sette anni, direi che i regaZ dell’agenzia ci hanno visto piuttosto giusto a cercarmi. Senza false modestie poi, preparo anche i migliori martini cocktail in città, ma questo credo che alla sventola bionda con gli occhi azzurri non interessi più di tanto, ai fini del colloquio.
Congedato con il più classico «le faremo sapere», un’ora più tardi, indeciso se masturbarmi o meno pensando alla sventola bionda con gli occhi azzurri, moderatamente deluso e vagamente offeso, sono già al lavoro, sdraiato sulla chaise-longue rossa di Franco Albini del mio salotto, che manco Giampiero Mughini, con di fianco la mia mazzetta di giornali, ascoltando in sottofondo il nuovo disco di Fabri Fibra Caos, che ho in loop su Apple music, sparato fisso sul mega Mac da una settimana, senza sosta. Ero così a rota aspettando l’uscita dell’album che forse posso paragonare questa spasmodica attesa a quella per l’uscita di Lorenzo 1992, quinto LP di Jovanotti, che da esaltato 12enne andai a comperare gonfio di ansia e aspettative in un negozio di musica in via Felice Bellotti a Milano, trascinando controvoglia una mattina di aprile un contrariatissimo zio Ezzelino, che all’epoca dava a Jovanotti del drogato, con la sola motivazione che «portava l’orecchino». «Il primo singolo era Non m’annoio e dentro c’è pure Ragazzo fortunato e altra roba pazzesca», ha scritto per celebrare l’anniversario del disco su Instagram Lorenzo qualche anno fa. E poi ha proseguito: «La foto di copertina la scattammo una domenica pomeriggio di sole tipo oggi, in casa mia, e siccome vivevo in un sottotetto (in Via Rembrandt a Milano) faceva un gran caldo». E alla fine ricordo che la consumai quella musicassetta, comperata in via Felice Bellotti a Milano, a furia di ascoltarla al massimo volume nello stereo di camera mia a Palazzo Fidia, a casa di mia nonna, urlando e ballando, con il cappellino rovesciato, durante la settimana delle vacanze di Pasqua.
I vinili di Lorenzo 1992 e Mr. Simpatia di recente me li sono ricomprati e ogni tanto li ascolto ancora oggi. E quando li metto sul giradischi mia nonna è ancora viva e mia zia Pia pure e io ho 12 e 25 anni nello stesso momento
Come consumai allo stesso modo, se non peggio, anni dopo, nell’estate del 2005, il primo cd di Fibra che mi trovai tra le mani per caso, gironzolando per le Messaggerie Musicali di Corso Vittorio Emanuele, cercando, prima di partire, della musica da portarmi al mare, in un bollente pomeriggio di inizio agosto. Fu così che rimasi talmente impressionato dalla copertina di quell’album, tutta virata sul rosso, con sopra Fibra che si era probabilmente appena sparato un colpo in testa, intitolato Mr. Simpatia, che decisi di prenderlo praticamente a scatola chiusa. Il risultato fu che uscii completamente di testa, come da anni non mi capitava per un disco, e ossessionai chiunque mi capitasse a tiro con quelle rime distorte per tutta le vacanze, divise quell’anno, tra Barcellona e il Salento. Ascoltavo Momenti no e Niente male a raffica, pensando ad Allegra, che la notte sognavo di torturare nelle maniere più crudeli e disparate mentre, sotto l’effetto di qualsiasi sostanza possibile e immaginabile, mi devastavo in maniera rigorosa e continua. Fatto sta che i vinili di Lorenzo 1992 e Mr. Simpatia di recente me li sono ricomprati e ogni tanto li ascolto ancora oggi. E quando li metto sul giradischi mia nonna è ancora viva e mia zia Pia pure ed io ho 12 e 25 anni nello stesso momento.

Torno al 2003 invece quando, cercando gli argomenti per la mia rubrica di racconti, sfoglio il Corsera e becco tra le pagine, dedicate alla guerra, un’intervista all’ex oligarca Mikhail Borisovich Khodorkovsky. Nel 2003, per chi ci crede, ero iscritto all’università Statale, alla facoltà di lettere e filosofia, mi ero appena trasferito nella mansarda di via Tiepolo, giravo con un Rolex GMT Master 2 da 12k al polso ed ero già una vera e propria star nel mondo delle discoteche minorili milanesi dove, con il microfono in mano, facevo fulmini e saette. Ciò nonostante ero incazzato come una bestia. Ero un teppista, un vandalo, un disadattato che si presentava a lavorare all’una di notte in discoteca con le occhiaie e il cappuccio della felpa Lonsdale tirato su e andava in giro con una mazza da baseball nello zaino, per spaccare tutto, non potendo sfondare il cranio al proprio padre, in esilio come Craxi ad Hammamet, però in Bulgaria. Fu proprio per quello, forse, che mi appassionai alla storia di Khodorkovsky, che ancora una volta sovrapponevo alla storia di mio padre, con la stessa tenacia di un ripetente somaro che si ostinava, senza mai passarlo, a dare lo stesso esame per un numero infinito di volte.

Nel 2003 Mikhail Borisovich Khodorkovsky aveva 40 anni, una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari e il controllo del colosso petrolifero Yukos, finito nelle sue mani nel Far West delle privatizzazioni russe degli Anni 90. Dopo aver cercato di organizzare una forza politica di opposizione al regime di Putin fu spedito in Siberia per oltre 10 anni in un carcere/gulag con l’accusa di frode ed evasione fiscale. Accuse che a casa nostra, tra l’altro, suonavano familiari come per gli altri il sapore del panettone a Natale. Oggi che ha quasi 60 anni il tipo può essere considerato senz’altro il principale dissidente russo in esilio e devo ammettere che non ne sentivo parlare e non ne avevo più seguito le sorti da parecchi anni. Il risultato finale è che la foto del suo testone pelato, a tutta pagina sul giornale, ancora una volta mi porta con il pensiero a mio padre e mi fa rimbombare nella testa le parole del mio psycho che, l’ultima volta che ci siamo visti, nel suo immenso studio in via del Torchio mi ha detto: «Ti dovrai decidere prima o poi ad andare a ritirare le ceneri di tuo padre in quella cassetta di sicurezza di quella maledetta banca di Ginevra e fargli un funerale Andrea! Che diavolo aspetti?».