La rivolta in Kazakistan è stata sedata senza troppi complimenti dal presidente Kassym-Jomart Tokayev. L’ordine costituzionale è stato ristabilito, le autorità regionali hanno la situazione di nuovo sotto controllo. Tremila arresti e una trentina di morti sono il bilancio di una settimana di fuoco che ha scosso la repubblica dell’Asia centrale, dove la tensione rimane però alta: il nuovo governo ha calmierato i prezzi del gas, il cui aumento aveva scatenato le proteste, ma i problemi di fondo restano. Difficoltà economiche e autoritarismo crescente sono stati il terreno fertile su cui è cresciuta la rivolta sociale, senza forti radici politiche realmente strutturate.

Le proteste in Kazakistan hanno archiviato l’era Nazarbayev
Gioco facile quindi per Tokayev che si è anche avvalso del supporto della Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva che guidato dalla Russia riunisce diverse repubbliche ex sovietiche. In realtà i corpi speciali sono arrivati a cose fatte, visto che sono bastate le forze kazake a riportare la quiete; l’intervento è stato comunque possibile perché il capo di Stato ha indicato una regia esterna al Paese all’origine del caos rivoluzionario. Veritiera o meno, questa versione è quella che ha dato il via a un’operazione militare che rischia di cambiare le carte in tavola su tutta la scacchiera centroasiatica. Da un lato in Kazakistan le proteste hanno causato un terremoto, con la fine ufficiale dell’era di Nursultan Nazarbayev. Tokayev nei giorni scorsi ha accentrato maggiormente il potere, licenziando il primo ministro Askar Mamin, sostituito con Alikhan Smailov, a lui più vicino. Poi ha assunto il ruolo di capo del Consiglio di sicurezza, accantonando appunto il leader storico del Kazakistan. E infine ha anche sostituito i vertici del Knb, i servizi segreti, allontanando Karim Masimov, uomo forte sempre a fianco proprio di Nazarbayev, sostituendolo con Yermek Sagimbayev. Resta da capire se dietro la girandola di poltrone si celi solo una transizione accelerata, dovuta alle proteste, per soddisfare le istanze di cambiamento volute dalla piazza; oppure sia il segnale di una resa dei conti interna con conseguenze ancora tutte da valutare. Anche in relazione alla presenza delle truppe della Csto, chiamate e arrivate nel giro di un giorno, forse un po’ troppo velocemente per non sospettare un accordo di fondo precedente.

Perché l’intervento della Russia è fondamentale per Tokayev
Il pensiero corre subito al Cremlino e a Vladimir Putin, che nel passato ha dimostrato di preferire le azioni a sorpresa, dalla Siria al Donbass, per mettere gli avversari di fronte ai fatti compiuti. Mentre così da mesi l’attenzione occidentale è stata puntata sul fronte ucraino, con tanto di invasione da parte russa paventata proprio per gennaio, arriva adesso l’azione in Kazakistan, sotto l’egida della Csto, ma sostanzialmente targata Mosca. Alla luce dei fatti, a livello militare, Tokayev molto probabilmente non aveva bisogno di alcun intervento esterno per riportare l’ordine nel Paese: gli serviva però per stare in piedi nel periodo di transizione post Nazarbayev, in mezzo alle faide interne tra i gruppi di potere che fino a ora hanno dominato la scena kazaka, senza contare le manovre di chi negli anni è passato da complice del regime alla diaspora dissidente.

Mosca con l’intervento in Kazakistan manda un messaggio all’Occidente
Putin ha colto l’attimo? O c’era un patto con Tokayev nel caso si presentasse una situazione del genere? Impossibile al momento dirlo, ma ora la realtà e che la Russia è presente militarmente in Kazakistan, garante in qualche modo dello status quo e del potere del presidente. Negli ultimi tre decenni, con varie rivoluzioni ai confini della Federazione russa, tra Caucaso e Asia centrale, la Csto non era mai intervenuta, anche in casi ben più eclatanti, dall’Armenia al Kirghizistan. Proprio alla vigilia dell’inizio dei colloqui tra il Cremlino e la Casa Bianca sulla questione ucraina, la Russia manda quindi un chiaro segnale all’Occidente, a proposito di linee rosse: nello spazio postsovietico è ancora Mosca a gestire gli equilibri, che al momento vogliono dire soprattutto stabilità. Se traballa il mosaico dell’Asia centrale, da sempre complicato nelle repubbliche dell’ex Urss e reso più delicato dall’Afghanistan di nuovo in mano ai talebani, aumentano le preoccupazioni non solo la Russia, ma anche per la Cina. Tutta fa insomma parte del Grande Gioco, con gli interessi divergenti di chi invece sarebbe avvantaggiato dai guai altrui.