Stravolgere il mondo digitale, rendendolo una realtà inclusiva e accogliente per gli utenti con la sindrome di Down. È questa la missione di Kami (@itskamisworld), la prima virtual influencer al mondo affetta da trisomia del 21.
Nasce Kami, l’influencer virtuale con la sindrome di Down
Nato dalla partnership tra l’hub creativo svedese Forsman & Bodenfors, l’agenzia di modelle digitali di Singapore The Diigitals e la non profit Down Syndrome International (DSI), il progetto si pone l’obiettivo di educare il web a mettere in discussione stereotipi triti e ritriti. Partendo, ad esempio, dalla sostituzione di avatar idealizzati e poco realistici (provvisti, nella maggior parte dei casi, di tratti somatici e silhouette talmente perfette da risultare scarsamente credibili) e contribuendo ad ampliare la rappresentazione di individui con disabilità, a oggi penalizzati da una visibilità limitata a qualche sporadica apparizione nel mondo della moda. La missione di Kami, diminutivo di Kamilah, è proprio questa: accostando la malattia alla figura dell’it girl che, nell’immaginario collettivo, viene assurta a modello di ineffabile perfezione, la ragazza diventa il simbolo più eloquente di come la sindrome non debba essere vista come un’onta, un’errore o qualcosa che le impedisce di vivere e lavorare alla pari delle sue coetanee.

Ma non solo: l’influencer fatta di pixel, infatti, vuole invitare i brand, il fashion system e la community online a rendere la rete uno spazio libero dai pregiudizi, archiviando quei modelli di bellezza che, immuni al tempo che passa e ai cambiamenti che il corpo affronta, non sono altro che una menzogna. «In un mondo in cui le modelle virtuali richiamano fisicità inesistenti, creare Kami significa sdoganare la sindrome di Down in rete nell’unico modo in cui si dovrebbe fare: normalizzandola», hanno spiegato a Branding Asia Rachel Kennedy e Firrdaus Yusoff, parte del team della Forsman & Bodenfors. Una linea di pensiero pienamente condivisa da Russell Watkins, responsabile delle raccolte fondi per DSI: «Kami nasce per tutti e deve diventare un’ispirazione per tutti», ha dichiarato, «nessuno dovrebbe chiedersi, guardandola nella sua quotidianità, cosa ci faccia lì o perché si spinga a provare quella determinata cosa. Dovrebbe essere vista e valutata per la persona che è e non perché ammalata».

Alle origini dell’avatar
Al di là dei messaggi di cui si fa portavoce, quello che la rende speciale è il processo che ha portato alla sua nascita. Il team di creativi che ha realizzato il disegno, infatti, è partito da una selezione di 100 candidate scelte tra quelle iscritte al network globale della DSI, donne che convivono da sempre con la patologia e, per questo, considerate la fonte più accertata da cui prendere spunto per lavorare sulla fisicità, il carattere, la voce, i gesti e la personalità di Kami in un processo che, per metà si è servito delle abilità manuali e, per metà, delle potenzialità dell’algoritmo. In un primo momento, le centinaia di fotografie del campionario sono state caricate su un database e, successivamente, un programma le ha mescolate in una singola immagine. Poi, da quella traccia, il software di elaborazione tridimensionale Daz3D ha iniziato a generare una prima bozza di Kami, iniziando dal viso.

«Fare affidamento al machine learning più che alla mano del disegnatore ci ha permesso di eliminare qualsiasi tipo di bias legato alla bellezza», ha sottolineato Cameron James-Wilson, fondatore di The Diigitals, «volevamo rappresentasse tutti i volti e i corpi delle candidate che si sono offerte di darci una mano». Da qualche giorno, l’influencer è attiva sul suo profilo Instagram dove, come le altre colleghe, condividerà dettagli sulla sua vita quotidiana, posterà foto del suo tempo libero e dei suoi outfit. Tutto rigorosamente abbinato all’hashtag #TheKamiPledge. «Vedere un’idea così preziosa diventare realtà è un traguardo molto importante per noi», ha aggiunto Andrew Boys, direttore esecutivo di DSI, «abbiamo grandi speranze in Kami. Siamo certi possa aiutare a rivoluzionare il mondo del digitale nel segno dell’inclusività».

Tra reazioni positive e critiche
L’iniziativa ha generato feedback misti. Da un lato c’è chi la guarda come un passo fondamentale verso un cambiamento necessario. È il caso di Jaspreet Sekhon, una delle volontarie che hanno preso parte al progetto: «Sui social non vedo così tante persone affette dalla sindrome. Vorrei tanto fossimo più numerosi», ha ribadito, «se riuscissimo ad essere più presenti, questo ci aiuterebbe a sentirci più sicuri. Dimostrando al mondo che possiamo desiderare e fare davvero qualsiasi cosa». Dall’altro, invece, sono diversi gli esperti che trovano problematico (soprattutto dal punto di vista etico) l’accostamento tra una storia personale particolare, che smuove il pubblico all’empatia, e l’operazione di marketing di cui, inevitabilmente, diventa protagonista, finalizzata, invece, a ben altri scopi.
