È diventata premier all’inizio di quest’anno e ha dovuto subito affrontare due crisi internazionali, entrambe già in corso ma ancora irrisolte: la pandemia e soprattutto quella con la Russia che continua a darle forti grattacapi: Kaja Kallas, leader del Partito riformatore estone dal 2018 e primo ministro a Tallinn dal 26 gennaio di quest’anno, sta concludendo un anno difficile alla guida del Paese.
Pandemia, la scommessa di non imporre nuove restrizioni
Nonostante il basso numero di vaccinati, circa il 60 per cento della popolazione, la curva dei contagi che si era impennata a inizio novembre ora sta rallentando, Omicron permettendo. Dall’inizio della pandemia ci sono stati circa 1800 morti nel éaese di 1,3 milioni di abitanti. A marzo Kallas aveva ordinato un duro lockdown di un mese che è servito per arginare l’espansione del virus e per ora ha deciso di evitare le misure radicali. Solo però nelle prossime settimane, a inverno inoltrato, si potrà capire se la premier ci ha azzeccato.
Kaja Kallas stretta tra crisi bielorussa e venti di guerra in Ucraina
Sul fronte russo lo scenario è più complesso. Tanto più che alle costanti tensioni con Mosca, 30 anni dopo la conquista dell’indipendenza, si sono aggiunte quelle con la Bielorussia. Sebbene i due Paesi non confinino direttamente, la crisi dei migranti innescata da Alexander Lukashenko ha pesanti ripercussioni in Estonia come nelle altre repubbliche baltiche. Lo stesso vale per i presunti venti di guerra in Ucraina, con le voci di un possibile ritorno di fiamma nel Donbass e di un’invasione russa, che hanno fatto scattare riflessi di solidarietà a Tallinn, a Riga e Vilnius. E Kaja Kallas è sempre pronta ad alzare la voce contro la minaccia russa, come è accaduto la scorsa settimana dopo l’incontro con il presidente francese Emmanuel Macron quando ha avvertito che l’Europa farà pagare duramente alla Russia una eventuale escalation in Ucraina.
Kaja Kallas figlia d’arte: il padre fu premier e vicepresidente della Commissione Ue
L’arte della politica la premier estone l’ha imparata a casa, dal padre Siim, già membro del Consiglio supremo dell’Urss prima che l’impero crollasse e riciclatosi durante la prima transizione postcomunista alla Banca centrale della nuova repubblica indipendente. Successivamente è stato ministro degli Esteri e premier tra il 2002 e il 2003, prima di finire a Bruxelles per 10 anni, tre volte commissario Ue e anche vice presidente della Commissione. Figlia di cotanto padre – europeista e atlantista convinto dopo mezza vita passata come economista al servizio dell’Estonia comunista – e nipote di Eduar Alver, fondatore nel 1918 della repubblica fagocitata in seguito da Stalin, Kaja Kallas (la cui madre ad appena sei mesi venne deportata con la famiglia in Siberia) non poteva che diventare il nuovo simbolo dell’Estonia ultimo baluardo europeo contro la Russia di Vladimir Putin.
Lo sguardo verso Washington prima che verso Bruxelles
Nata nel 1977, aveva 12 anni quando l’Unione sovietica crollò, dando vita alla veloce transizione delle repubbliche baltiche verso l’Unione europea e la Nato. Nel 2010, dopo aver studiato legge, è entrata in politica, nel Partito riformatore fondato dal padre, e nel 2014 è approdata al parlamento europeo, a seguito sempre del padre già commissario, facendo ritorno a Tallinn nel 2018 per prendere in mano direttamente il partito. Carriera fulminante e prevedibile visto le premesse. Kaja Kallas è il prototipo di quella classe politica comune a tutti i Paesi baltici orientata geo-politicamente verso l’Europa e ancor più verso gli Stati Uniti, pronta in ogni occasione ad alzare, verbalmente, lo scontro con la Russia, riflettendo più i voleri di Washington che di Bruxelles.
Gli strali contro il Nord Stream e contro il Cremlino
È così che la premier estone è sempre in prima fila quando si tratta di lanciare strali contro Nord Stream, il gasdotto che aggira la Mitteleuropa per collegare direttamente Russia e Germania, e si allinea ai falchi statunitensi che vogliono bloccare a tutti costi il progetto bollandolo come la riedizione energetica del patto Molotov-Von Ribbentrop. Oppure quando c’è da accusare il Cremlino di essere il burattinaio dietro la crisi dei migranti in Bielorussia o di voler mandare direttamente a tank russi a occupare anche Kiev oltre il Donbass e la Crimea. La paura a Tallinn, come a Riga o Vilnius, che la storia si ripeta è forte, ma solo in parte giustificata, se è vero che l’architettura europea non è quella della prima metà del secolo scorso, con le repubbliche ben protette nella Nato, il 2021 non è il 1939 e soprattutto Putin non è Stalin come qualcuno vorrebbe far credere.