Il caso Juventus, le battaglie tra cugini e l’assenza di mamma: il racconto della settimana

«E della Juve, che ne pensate?», domando. «Il cugino figo che fa fuori quello sfigato». «Pensa che potevamo finire anche noi così, ma all’epoca tuo fratello aveva altri piani», risponde Giorgio. Perché sì, la vita può essere ingiusta, ma a volte sa essere spettacolare come un grande evento sportivo ed eccitante come un film. Il racconto della settimana.

Il caso Juventus, le battaglie tra cugini e l’assenza di mamma: il racconto della settimana

30 novembre 1980. Quel bimbo che non ha nemmeno 11 mesi crescerà, e diventerà un ragazzo e poi un uomo. Forse avrà lo stesso sguardo sfrontato, l’identico sorriso autentico e pulito. E affetti, ricchezza, fascino. Ma quel bimbo non conoscerà mai sua madre. Lo ricopriranno di attenzioni ma non potranno darle lei. Lei, Renata, 1943-1980. Due date, una epigrafe spietatamente crudele a segnare lo spazio troppo breve tra l’inizio e la fine di una vita, a racchiudere in uno scrigno un futuro che si annunciava splendente e che invece non si realizzerà più. Aveva il mondo in pugno Renata, ma la sua favola di principessa moderna che sembrava uscita dal romanzo di Louisa May Alcott, Piccole donne, è finita prima del tempo, in un gelido mattino di novembre sulle Alpi Svizzere. Breve come un sospiro.

Questo pensano il giorno del funerale i presenti, assiepati davanti alla Parrocchia San Giovanni in Laterano di Piazza Bernini a Milano, mentre attendono il feretro in arrivo da Crans-Montana. Ad accompagnarla un piccolissimo corteo di auto blindate con a bordo i familiari più stretti. C’è Kico, il marito, con il figlio Stefano, nato dal primo matrimonio. C’è sua madre Maria, con i nipoti, Laura e Luciano. C’è la sorella Lidia, con le figlie, Gabriella e Luciana. Amelia, la sorella prediletta, non ce l’ha fatta, è ancora ricoverata in ospedale in Svizzera per la frattura al femore dopo l’incidente in cui Renata ha perso la vita. E non c’è nemmeno Pia, la terza sorella, rimasta a vegliare Andrea, il bimbo di cui sopra, anche lui ancora in ospedale, a Martigny, dopo lo schianto. La piazza è gremita, c’è la famiglia di Kico, sua sorella Zena, sua zia Zhora, i nipoti Serbelloni, che insieme al nutrito gruppo di amici sono ancora increduli. Nell’aria si respira un dolore muto. Un dolore immenso, di quelli che tolgono ogni parola. Cosa puoi dire quando vieni a sapere che è morta una donna di 37 anni in un incidente stradale, e che il piccolo che aveva appena messo al mondo si è salvato per miracolo? Non puoi dire niente. Resta solo lo strazio. Uno strazio che non lascia posto a nessuna parola. Quelle verrano utilizzate più tardi, quando si racconterà ad Andrea, quando crescerà, chi e di quale stoffa era fatta sua mamma; una mamma a cui il destino ha concesso appena il tempo di prenderlo tra le braccia. Glielo racconteranno il padre, le zie, i cugini e la nonna. Oggi, tutti impietriti e dilaniati da una tragedia che nessuno di loro riesce a comprendere a pieno. E lui, Andrea, vedrà le fotografie di quella mamma, bella, giovane, ricca e dal destino sfortunato, che tanto lo aveva voluto al mondo, e che, per un atroce scherzo di una sorte assurda non vedrà crescere.

«Cosa ti è più mancato di tua madre, secondo te?», mi ha chiesto settimana scorsa il mio psycho, seduti uno di fronte all’altro, nel suo studio in via del Torchio. «Forse il non essere mai stato amato da nessuno in maniera assoluta e incondizionata»

2022. Il primo ricordo che ho di mia madre è una fotografia. Sorride, ha i capelli quasi a caschetto ed è avvolta in un cappotto beige. Deve essere stata scattata a Londra, durante un week end della fine degli Anni 70, trascorso con la zia Amelia ed il cugino Luciano. «Faceva un freddo pazzesco», mi rivelò una volta mia zia, anni dopo. Quella foto color seppia, incastonata in una cornice marrone chiaro, è stata per anni nel salotto dell’appartamento di mia nonna a Palazzo Fidia, poi ha seguito mia Zia Pia in tutte le case dove ha abitato fino a che, dopo la sua morte, è arrivata a me. Oggi, ancora nella stessa cornice di allora, troneggia nella mia camera da letto, sul comodino. Tutte le mattine è la prima cosa che vedo appena apro gli occhi. Di mia madre in realtà so molto poco. Non so nulla della sua infanzia, dell’adolescenza. So che suo padre, il conte Sebregondi, un tizio che in famiglia, diciamo, non ha mai avuto un buon ufficio stampa, è morto che lei era molto piccola e che a crescerla è stata mia nonna Maria. Il resto l’ho scoperto grazie a una serie di album contenenti altre foto, quelle dei viaggi con mio padre, dal 1974 al 1980. Lisbona, Parigi, Montecarlo, New York, le Bahamas, i Caraibi, Megève, Porto Rotondo, Sofia, Forte dei Marmi, Venezia, Atene, Istanbul, Rodi, Cannes, Gstaad, sono solo alcuni dei luoghi che mi ricordo. Ho sfogliato quegli album centinaia di volte, fino alla nausea, era tutto quello che avevo dei miei genitori, insieme a una serie di maschere africane che avevo appeso in giro per casa e a un set di vecchie valigie, piene zeppe di documenti. È andato tutto perduto durante un trasloco dopo l’ennesimo sfratto da non so più nemmeno dove. Oggi sono 42 anni dal giorno dell’incidente ed è pure il mio onomastico, un giorno che da piccolo aspettavo con estrema ansia perché venivo ricoperto di regali da chiunque e che poi, da quando sono cresciuto, mi ha sempre lasciato addosso solo un’estrema dose di tristezza. «Cosa ti è più mancato di tua madre, secondo te?», mi ha chiesto settimana scorsa il mio psycho, seduti uno di fronte all’altro, nel suo studio in via del Torchio. «Forse il non essere mai stato amato da nessuno in maniera assoluta e incondizionata», gli ho risposto, quasi di getto. E probabilmente, ripensandoci oggi a mente fredda, è stato davvero così.

Il caso Juventus, le battaglie tra cugini e l'assenza di mamma: il racconto della settimana
La foto di mia madre Renata.

1 dicembre. Armani Hotel, via Manzoni. «Devi provare a recuperare il rapporto con tuo fratello», mi ha anche detto lo psycho la settimana scorsa alla fine della seduta nel suo studio in via del Torchio. Così ho accettato di andare stasera alla presentazione del libro di Giorgio Armani, intitolato Per amore, appena uscito in libreria per Rizzoli, dove mio fratello, che per la Giorgio Armani s.p.a. ha lavorato per oltre 25 anni, è stato invitato. Il bar dell’Armani Hotel è strapieno. Mio fratello, Priscilla e mio cugino Giorgio siedono a un tavolo per quattro vicino all’entrata. Come li vedo il cugino, in giacca e cravatta, si alza e gesticola come si trattasse di una grande occasione, mentre sia mio fratello che Priscilla restano seduti composti. Lei indossa un vestito blu elettrico senza spalline, ovviamente Armani. La sala è zeppa di giganteschi vasi di fiori da aggirare e dozzine di camerieri con vassoi pieni di coppe di champagne si muovono costantemente avanti indietro, come posseduti. «Ciao, cugino», dice Giorgio, mentre un cameriere mi scosta la sedia. «Dov’è Ofelia?». «Al lavoro hombre, qualcuno in famiglia deve pur farlo», dico io, mentre qualcuno mi versa Dom Perignon nel flûte vicino al mio tovagliolo. Mio fratello ha lo sguardo assente, mi domando cosa stia pensando e gli chiedo: «Brother, hai già salutato il capo?». Segue una lunga pausa prima che riesca a rispondere semplicemente, «sì».

Per chi non lo sapesse mio fratello circa due anni fa ha avuto un emorragia cerebrale che lo ha quasi ucciso. Oggi sta bene ma decisamente non è tornato quello di prima. Curiosamente anche mio cugino Giorgio pochi mesi dopo ha rischiato la vita uscendo di strada nei pressi di Cap Ferrat, alla guida di una Ferrari, sui tornanti della haute corniche. Fortunatamente anche lui se l’è cavata, ma i due eventi accaduti quasi in contemporanea hanno alimentato la leggenda della maledizione che aleggerebbe da tempo sulla nostra famiglia che a noi piace paragonare a quella dei Kennedy. Oggettivamente anche noi come loro siamo stati colpiti negli anni da una quota di tragedie violente ben maggiore alla media ma personalmente non credo esista nessuna maledizione e noi tre seduti intorno a questo tavolo ne siamo la prova vivente. Tutti e tre possiamo, per ragioni diverse, considerarci dei sopravvissuti. Due su tre siamo sopravvissuti a due spaventosi schianti. L’altro a un’emorragia che avrebbe ucciso chiunque. Nessuno di noi è caduto vittima di alcuna maledizione. Per quanto riguarda gli altri, credo che semplicemente la vita sia profondamente ingiusta.

«Allora, Andrea, di cosa ti stai occupando in questo periodo?», chiede Priscilla, rompendo il silenzio.
«Mah, cara», comincio, vago, riflettendo mentre trangugio le bollicine. «Faccio talmente tante cose che non ne ho praticamente idea». Si mettono a ridere tutti e tre, sgomenti.
«Piuttosto», chiedo, cercando di cambiare argomento, «Avete visto che hanno chiuso il mitico Mac di Piazza San Babila? Voi due siete mai stati paninari?».
«Io più che al Mac di San Babila andavo a un’altra paninoteca, quella in via Agnello, dietro corso Vittorio Emanuele. Poi sì, portavo anche io le Timberland, ma in realtà inizialmente quello era un ritrovo di ragazzi come noi che frequentavano scuole private come il San Carlo o il Leone XIII. Di Moncler e di giubbotti Schott se ne vedevano pochi. Preferivamo indossare l’Henry Lloyd da barca, le Burlington e i Ray Ban a specchio», mi risponde il cugino, prima di concludere: «È comunque un pezzo di storia della città che se ne va».
«E della roba della Juve, cosa ne pensate? Pazzesco no?», domando. «Il cugino figo che fa fuori quello sfigato».
«Pensa che potevamo finire anche noi così, ma all’epoca tuo fratello aveva altri piani», dice ancora Giorgio. Altra lunga pausa.

All’epoca Giorgio camminava abbronzatissimo sulla spiaggia di Forte dei Marmi con un completo di lino scuro, la camicia con il colletto tirato su, come un dandy tormentato. Stefano invece sfrecciava sul mare davanti col windsurf, altrettanto abbronzato, con l’aria nei capelli, i muscoli in evidenza e i bermuda attillati. Era la fine degli Anni 80, Stefano aveva 26 anni, Giorgio 28. Entrambi erano abbastanza noti alle cronache mondane dell’epoca perché il brother stava concludendo la sua carriera da modello e il cugino proseguiva, impenitente, la sua da playboy. Fecero coppia insieme davanti ai giornalisti una sola volta, «saremo certamente pronti ad assumerci le nostre responsabilità quando lo decideranno i nostri genitori», disse Giorgio. Perché a quei tempi da una delle aziende di mio padre, la Technofilm, stava nascendo la Golden Video e i due soci di maggioranza erano mio padre e l’altro mio cugino, Gian Mario, il fratello maggiore di Giorgio, anche se era noto a tutti che dietro ci fosse mio zio Nando, che, semplicemente, ci aveva messo i soldi.

Quello, mentre il cugino cadeva in piedi vendendo la Golden Video senza rimetterci la testa, fu lo stesso periodo in cui fu spiccato il primo avviso di garanzia nei confronti di mio padre, per i guai combinati dalla sua nuova società, la Medical Soy

«Immagino tu stia parlando della Golden Video, cugino», lo interrompo. «Racconta che la cosa mi interessa molto. Continua pure. Posso avere un altro bicchiere di champagne?». Priscilla inclina riflessiva la testa, guarda mio fratello che aggiunge: «La Golden Video la ricordo bene anch’io. Se non erro ci devo aver addirittura lavorato per un brevissimo periodo». Così il cugino attacca a parlare. La Golden Video nacque nel 1985, dalle ceneri della Technofilm, con cui vostro padre aveva fatto un sacco di soldi. Lo zio Kiko in quel periodo però era pieno di debiti, si parlava di svariati miliardi, così chiuse l’azienda e ne aprì un’altra, utilizzando come patrimonio i diritti dei film che ancora gli rimanevano. Mio padre, non capisco ancora oggi il motivo, decise di seguirlo in questa impresa, investì una discreta somma e mise Gian Mario come socio al 50 per cento. Era chiaro che allo zio Kiko non interessasse più niente della storia dei film, voleva solamente tirare su un po’ di soldi e avere una nuova società da utilizzare come portafoglio per proseguire nelle sue spericolate operazioni finanziarie. Con Gian Mario non ne imbroccarono una, acquistarono una serie di film che non funzionarono e scommisero praticamente tutto sul porno. Quando mio padre se ne accorse organizzò in fretta e furia una riunione di famiglia a Moltrasio e mi chiese di entrare a salvare la situazione. «Con questi bilanci andiamo dritti in procura», disse quella sera, perché effettivamente lo zio Kiko ne combinava davvero di ogni. Praticamente con queste parole mi obbligò moralmente a subentrare, anche se io non avevo nessuna intenzione di farlo. Ma mio padre era così: se era una sua idea era pronto ad aiutarti fino alla morte. Se l’idea era di qualcun altro, non se ne parlava nemmeno. Che poi è accaduto anche con la storia dell’eredità, ma di questo non voglio nemmeno parlarne. Morale che entrai in gioco. Era il 1989. Non avevo nemmeno 30 anni.
«E il papà? Tu brother ti ricordi? Io ero troppo piccolo», chiedo.
«Mah, ricordo vagamente una scena, in ufficio in via Petrella, il papà che urlava con la bava alla bocca alla fine di una specie di riunione con presenti lo zio Nando, Gian Mario e degli avvocati», dice lui. «Lo ricordo perfettamente, c’ero anch’io a quella riunione. Fu il giorno che lo liquidammo», interviene il cugino. «Gian Mario non era in grado di tenere a bada vostro padre e l’unica soluzione era quella di farlo fuori. Così lo sostituii e, nonostante trovai davanti a me una situazione disastrosa, riuscii a far rinascere dalle ceneri la società come un’araba fenice, sanai i debiti e la vendetti definitivamente includendo nel pacchetto anche i diritti dei film pornografici nel 1993, evitando alla famiglia un bagno di sangue. Stare in serie A non era semplice, lo ammetto. Quelli erano ambienti dove si giocava pesante. Ma alla fine me la cavai». E quello, mentre il cugino cadeva in piedi vendendo la Golden Video senza rimetterci la testa, fu lo stesso periodo in cui fu spiccato il primo avviso di garanzia nei confronti di mio padre, per i guai combinati dalla sua nuova società, la Medical Soy. Perché sì, la vita può essere ingiusta, come dicevamo prima, ma a volte sa essere spettacolare come un grande evento sportivo ed eccitante come un film di Hollywood.

*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.