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Nuovo processo per Iwao Hakamada: è il condannato a morte più anziano del mondo

L’’uomo giapponese ha trascorso 35 anni nel braccio della morte per un’accusa di omicidio di cui si dichiara da sempre innocente.

13 Marzo 2023 20:54 Elena Mascia
In Giappone, il detenuto più anziano al mondo potrebbe vedere la revisione del processo a suo carico. Speranze e appelli tra i sostenitori della causa
Una vita trascorsa in carcere. Iwao Hakamada, il più anziano condannato a morte del mondo, a ben 87 anni, vedrà la revisione del suo processo. L’ex pugile, condannato per la prima volta nel 1968 con l’accusa di omicidio plurimo (avrebbe ucciso quattro persone nel 1966), ha avuto la condanna definitiva nel 1980. Hakamada, che si è sempre dichiarato innocente, affermando che la prima confessione gli fu estorta, ha trascorso in cella di isolamento un tempo lungo quanto quasi mezzo secolo. Affetto da problemi mentali, è riuscito ad ottenere un nuovo processo nel 2014, con richiesta di immediata scarcerazione.

Nuovo processo per Iwao Hakamada

Nel 2018, a seguito del ricorso della pubblica accusa, il verdetto era stato nuovamente rivisto. A causa dei numerosi problemi di salute, Iwao aveva ottenuto il permesso di restare, in attesa della sentenza, in uno stato di libertà. La recentissima decisione della corte è stata accolta con sollievo e speranza da parte di chi, da anni, si batte per sostenere l’innocenza dell’ex pugile, come la sorella che ha dichiarato: «Mi hanno finalmente tolto un grande peso dalle spalle. Ho aspettato questo giorno per 57 anni ed è arrivato».
Iwao Hakamada (Amnesty)
A supportare la causa anche Amnesty, che ha affidato la sua dichiarazione alle parole del direttore di Amnesty International Giappone, Hideaki Nakagawa: «Questa sentenza offre un’opportunità attesa da tempo per rendere giustizia a Hakamada Iwao, che ha trascorso più di mezzo secolo sotto condanna a morte nonostante la palese iniquità del processo che lo ha visto condannato. La sua condanna era basata su una ‘confessione’ forzata e ci sono seri dubbi sulle altre prove usate contro di lui. Eppure, all’età di 87 anni, non gli è stata ancora data l’opportunità di impugnare il verdetto che lo ha tenuto sotto la costante minaccia della forca per gran parte della sua vita. Ora che l’Alta corte di Tokyo ha riconosciuto il diritto di Hakamada al giusto processo, negatogli più di 50 anni fa, è imperativo che i pubblici ministeri permettano che ciò accada». L’appello lanciato ai pm è stato quello di non presentare ulteriore ricorso contro la sentenza odierna per non prolungare il limbo in cui si trova Hakamada.

Le tappe della condanna a morte

L’uomo fu giudicato colpevole dell’omicidio dell’intera famiglia di quello che allora era il suo capo. Il 30 giugno del 1966, il dirigente di una fabbrica di Shizuoka, sua moglie e i due loro figli furono accoltellati prima che la loro casa venisse incendiata. L’ex pugile attirò subito le attenzioni della Polizia sulla base di alcune tracce di benzina e sangue trovate sul suo pigiama. Inizialmente l’uomo negò tutte le accuse, ma dopo 20 giorni di custodia ammise gli omicidi.

Nonostante la confessione, che si ritiene estorta, durante il primo processo nel novembre del 1966 Hakamada si dichiarò non colpevole. Nell’agosto del 1967, 14 mesi dopo i fatti, furono poi trovati degli indumenti insanguinati in una cisterna che la Procura ritenne suoi. Per questo fu condannato a morte nel settembre del 1968 malgrado le accuse fossero piene di incongruenze e senza che fossero mai indagate altre persone.

Iwao Hakamada (Amnesty)

La condanna fu ratificata in secondo grado dall’Alta Corte di Tokyo e infine dalla Corte Suprema nel 1980. Subito dopo la sentenza definitiva, Hakamada fu trasferito nel braccio della morte dove rimase per circa 35 anni, fino al 2014. Dopo una lunga battaglia legale per ottenere un nuovo processo, sostenendo di essere stato torturato e obbligato a firmare una confessione, nel 2008 ottenne una revisione del sangue presente sugli indumenti trovati nella cisterna. Il DNA risultò incompatibile sia con quello del condannato che con quello delle vittime e nel 2014 Hakamada fu scarcerato in attesa di un nuovo procedimento. Nel 2018 l’Alta Corte di Tokyo dichiarò tuttavia che il test del DNA non era ammissibile e il caso finì alla Corte Suprema del Giappone, che accolse l’appello della difesa nel 2020. Il caso tornò quindi all’Alta Corte che avrebbe dovuto valutare se la condanna alla pena di morte dovesse essere considerata valida, e quindi eseguibile, o se celebrare un nuovo processo, come ha infine stabilito oggi.

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