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Tokyo 2020

Gallinari chi?

L’italoamericano Mannion, il “pupazzo” Polonara, l’anti-social Pajola e il coach nato in un campo profughi. Chi sono gli uomini che hanno riportato l’Italbasket alle Olimpiadi dopo 17 anni. Senza big.

8 Luglio 2021 11:2623 Luglio 2021 12:49 Nicolò Delvecchio
Dopo 17 anni la Nazionale italiana di basket è tornata alle Olimpiadi. Ecco chi ha scritto l'impresa sempre fallita dal 2004 a oggi

Nessuno, come loro, aveva fatto gioire l’Italia della pallacanestro in questo modo negli ultimi 17 anni. A Tokyo, ad agosto, ci saranno anche gli Azzurri del basket, riusciti nell’impresa di battere – a Belgrado – la fortissima Serbia. Quando nel torneo pre-olimpico la selezione di Meo Sacchetti era finita nello stesso gruppo con i serbi, la reazione era stata quasi unanime: va bene, è stato bello, ci riproveremo a Parigi 2024. Anche perché mancavano all’appello i “migliori”: Gigi Datome e Marco Belinelli affaticati da una stagione lunghissima (i due si sono affrontati nella finale scudetto tra Olimpia Milano e Virtus Bologna, vinta dagli emiliani) e Danilo Gallinari impegnato, con i suoi Atlanta Hawks, nella missione – non riuscita – di raggiungere le Finals Nba.

⭐ Tutto vero! TUTTO VERO. Li abbiamo dominati, segnando 102 punti. A casa loro.

Non è più un sogno, è REALTA'.

Grazie Azzurri, per queste lacrime di gioia.

Torniamo ai Giochi Olimpici dopo 17 anni! 🇮🇹

Retweet per urlare con noi:
Italiaaaaaaaaaa!!!!#Italbasket #ItaliaTeam pic.twitter.com/iDm1wYx0g0

— Italbasket (@Italbasket) July 4, 2021

Così, la Nazionale ha affrontato il torneo, accompagnata perennemente dalla spada di Damocle della probabile finale contro la Serbia. Dopo l’accesso automatico in semifinale per il forfait del Senegal (troppi casi di Covid nella selezione africana), gli Azzurri hanno battuto di 20 Porto Rico (79-59) e, all’ultimo atto, effettivamente si sono trovati davanti gli avversari di una vita, quelli che non si battono mai. E invece è finita 102-95, con prove straordinarie di Nico Mannion, Achille Polonara e Simone Fontecchio, e con un bel biglietto per l’Olimpiade che l’Italbasket non afferrava dal 2004, da quando Charlie Recalcati e i suoi ragazzi regalarono all’Italia una bellissima medaglia d’argento. Ma chi sono i protagonisti di questa impresa, gli uomini che non hanno fatto sentire la mancanza delle stelle?

Niccolò “Nico” Mannion, il rosso d’America

Papà americano, mamma italiana, Nico Mannion è nato a Siena da madre pallavolista (Gaia Bianchi) e padre cestista (Pace Mannion, una carriera tra Nba e Serie A) ma è cresciuto negli Stati Uniti. Classe 2001, ha debuttato in azzurro a soli 17 anni, il quarto più giovane di sempre. Galeotta la mancata convocazione da parte degli Usa under 16, e palla al balzo – o al rimbalzo – colta dalla Federazione italiana, che nel 2018 si “appropriò” di Nico e lo rese italiano per sempre. «Voglio sfondare nell’Nba, ma giocare per l’Italia mi riempie di orgoglio», disse ai tempi. Dopo il college con gli Arizona Wildcats, nel 2020 viene scelto dai Golden State Warriors (la squadra con cui il padre debuttò in Nba), numero 48 del draft, e dopo un inizio difficile e un passaggio in G-League (la lega “di sviluppo” delle squadre professionistiche americane), complice l’infortunio di Steph Curry, ha trovato sempre più spazio. Ha giocato 30 partite e chiuso la stagione con una media di 4,1 punti, 2,3 assist e 12 minuti, ma soprattutto ne ha fatti 24 alla Serbia e ci ha trascinato all’Olimpiade. Alcuni lo chiamano Red Mamba, soprannome che fa il verso al “Black Mamba” di Kobe Bryant e che gioca col colore dei suoi capelli. A lui non piace, lui è solo Nico. E a noi va bene così.

#Tokyo2020 bound.

Huge congrats to Nico Mannion, who led @Italbasket with 24 points in the finals of @FIBA qualifying tourney play today. pic.twitter.com/oaw5wYN3XX

— Golden State Warriors (@warriors) July 4, 2021

Achille Polonara, il gusto dell’epica

«Cantami, o diva, del pelide Achille l’ira funesta». Ecco, non vogliamo scomodare Omero e la sua Iliade, ma con un Polonara così come si fa a non farsi prendere dall’entusiasmo? Ala grande, classe 1991, l’anconetano di 205 centimetri è da tempo uno dei migliori giocatori del basket nostrano. Teramo, Varese, Reggio Emilia e Sassari sono stati i trampolini di lancio per un’ottima carriera, che nel 2019 ha avuto il suo primo, vero, salto di qualità. Non che prima faticasse, sia chiaro: nel 2017 fu invitato dai Milwaukee Bucks per un Summer Camp nel Wisconsin, ma non partecipò per un infortunio. In Sardegna, nel 2019, vinse il primo trofeo europeo della sua carriera (la Europe Cup) prima di salutare e trasferirsi in Spagna, al Saski Baskonia. Qui vinse un campionato al primo colpo (2019-20) e iniziò a giocare in Eurolega, aggiudicandosi premi come migliore sorpresa e miglior giocatore della settimana in più occasioni. L’anno prossimo sarà in Turchia, nel Fenerbahce del serbo Koskosov, al quale lunedì ha mostrato tutta la sua potenza, con 22 punti e tante giocate decisive per gli Azzurri (Kokoskov è anche il selezionatore della nazionale balcanica). Il suo soprannome è Il Pupazzo, speriamo che a Tokyo continui a farci divertire.

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Simone Fontecchio, il passaggio del testimone

Abruzzese del 1995, Fontecchio ha esordito in Nazionale giovanissimo, nel 2014, e ci è poi ritornato due anni dopo. Anche lui, come Mannion, viene da una famiglia di sportivi: il padre Daniele è stato un ostacolista, vicecampione europeo nei 60 metri indoor nel 1986. La madre, Amalia Pomilio, ha giocato a pallacanestro ed è un’allenatrice, passione presa dal padre Vittorio – il nonno di Simone – sul parquet fino al 1973, con 19 presenze in nazionale. E anche il fratello Luca, più grande di cinque anni, fa il cestista, sebbene nelle serie minori (e con Polonara è arrivato secondo, con la Nazionale, agli Europei under-20 del 2011). Ala piccola, Simone è cresciuto nella Virtus Bologna e si è poi trasferito all’Olimpia Milano, prima di iniziare un viaggio che lo ha portato a Cremona, Reggio Emilia e Berlino (primo italiano a giocare nell’Alba). Dopo un anno in Germania, in cui ha partecipato all’Eurolega e vinto il campionato, raccoglierà il testimone di Polonara e, dalla prossima stagione, vestirà la maglia del Baskonia, squadra che anche l’anno prossimo giocherà in Eurolega. E squadra che ha fortemente creduto nell’ala piccola di 203 centimetri, tanto da pagare 250 mila euro ai tedeschi per assicurarselo. Nella corsa a Tokyo sono stati fondamentali anche i suoi 21 punti, terzo miglior marcatore degli Azzurri.

Alessandro Pajola, l’anti-social campione d’Italia

«I social non li uso e non li so usare, ho una pagina Instagram ma la gestisce un ragazzo che su queste cose è molto più bravo di me. Che faccio nel tempo libero? Leggo, soprattutto quando andiamo in trasferta, esco con gli amici e guardo le serie tv. A volte vengo a sapere del rinvio di una partita, o di altre notizie del genere, solamente quando arrivo al campo di allenamento». La chioma riccia indomabile restituisce un’immagine simpatica di Alessandro Pajola, playmaker del 1999 fresco vincitore dello Scudetto con la Virtus Bologna. Ma, quando si scende sul parquet, c’è davvero poco da scherzare. Miglior under 22 della Serie A 2020-21, protagonista nella serie finale contro Milano, se a 21 anni Pajola è già campione d’Italia lo deve anche a due serbi: il primo è Milos Teodosic, giocatore straordinario che, dopo una carriera tra Eurolega e Nba, ha deciso di portare la sua classe in Emilia-Romagna («una volta mi chiese come mai la regione si chiamasse così, e io non seppi rispondergli», ha detto Pajola in un’intervista). L’altro è Sasa Djordjevic, coach della Virtus e autore del capolavoro scudetto. Un aiuto che non lo ha minimamente condizionato nella finale del pre Olimpico, visto che con 10 punti è stato il quarto migliori marcatore degli Azzurri (e ha vinto nettamente il confronto a distanza col compagno Teodosic). Per la riconoscenza ci sarà tempo un’altra volta.

Meo Sacchetti, il coach dalle origini miste

I nonni del coach, bellunesi dal cognome “Sachet”, nel tardo ‘800 lasciarono l’Italia e si trasferirono in Romania per lavoro. Furono i loro figli, negli anni ’50, a decidere di abbandonare il Paese dell’est e la Cortina di Ferro per far ritorno nella terra d’origine, da loro mai visitata prima, per non perdere la cittadinanza italiana. Prima tappa a Udine e “italianizzazione” del cognome in Sacchetti, poi i trasferimenti nei campi profughi a Termini Imerese (Palermo) e Altamura (Bari), dove “Meo” nacque nel 1953: «Il quarto figlio dei miei genitori, il più piccolo, si chiamava Romeo. Si ammalò e una notte, dalla casa isolata su una montagna in cui abitavano, mio padre e mia madre scesero a valle alla ricerca di un medico. Portavano il piccolo avvolto in una coperta e tenevano in mano un fucile per scacciare i lupi che popolavano quei boschi. Il medico non riuscì a salvare il bambino e quando nacqui io mi diedero lo stesso nome. Non ho mai saputo altro, perché in casa mia questo argomento era tabù». Da piccolo si trasferì con la famiglia a Torino, e lì iniziò a giocare a pallacanestro a ottimi livelli. In Nazionale ha collezionato 132 partite e vinto un argento Olimpico (Mosca 1980) e un oro Europeo (in Francia nel 1983). Da allenatore ha vinto uno Scudetto, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana con Sassari e una Coppa Italia con Cremona. Coach azzurro dal 2019, all’indomani della vittoria contro la Serbia ha firmato un prolungamento del contratto fino al 2022. Subito dopo la partita ha regalato un’immagine “italianissima”, mandando a quel paese Kokoskov al momento di stringergli la mano, sicuramente per rispondere a qualche provocazione non gradita. Il Presidente federale, Gianni Petrucci, gli avrebbe preferito Ettore Messina, Meo ha risposto riportando l’Italia dove nessuno, in quasi 20 anni, era mai arrivato.

Tag:Olimpiadi2020
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