Sono sposati da anni, hanno figli e vivono nella stessa casa. Ma lui può aprire un conto in banca, ricevere assistenza sanitaria a un costo ragionevole, accedere a incarichi pubblici, portare i bambini all’estero. Lei no, perché non ha la carta d’identità dello stesso colore.
Ad affrontare situazioni così migliaia di famiglie che vivono in Israele, in cui uno tra marito e moglie è cittadino dello Stato ebraico, quindi in possesso del documento blu, e l’altro è invece palestinese, titolare del documento verde. Nonostante il matrimonio una legge ha impedito dal 2003 la concessione automatica della residenza in Israele – percorso che poi, eventualmente, può portare alla concessione della cittadinanza – ai palestinesi sposati con arabi israeliani. Per i coniugi di qualsiasi altra nazionalità (anche se nel 2007 la legge è stata estesa anche a siriani, libanesi, iraniani e iracheni), invece, il matrimonio con un israeliano ha sempre immediatamente dato diritto a un visto di residenza temporaneo, dal quale parte il processo di “naturalizzazione” nello Stato ebraico. Una situazione da molti definita discriminatoria e che, però, a breve potrebbe cambiare. La legge, infatti, provvisoria e rinnovata di anno in anno, non è stata approvata dal Parlamento nel 2021, creando un vuoto legislativo, pronto a essere sfruttato da migliaia di persone.

Se però non si avviano le specifiche pratiche (che possono anche essere respinte), la situazione per chi si trova in queste condizioni non cambia. Così se il padre palestinese, ma residente in Israele, volesse portare i suoi figli dai nonni in Cisgiordania e subisse un controllo di polizia, rischierebbe un’accusa di rapimento, perché i bimbi sono registrati solo sul documento del genitore israeliano. E anche i viaggi all’estero sono un calvario: o si parte da aeroporti diversi, perché i palestinesi con documento verde possono decollare solo dalla Giordania, o presentare una domanda per prendere un volo insieme da Tel Aviv, rischiando che la richiesta venga respinta. E, ogni anno, è necessario produrre un numero impressionante di documenti, tra bollette e altro, per dimostrare che il centro dei propri interessi è in Israele, e per ottenere la proroga del permesso di soggiorno. Che va rinnovato volta per volta e dal quale, però, non è poi possibile avviare l’iter per la cittadinanza. A molti, poi, il permesso non viene direttamente concesso o rinnovato e quando ciò accade scatta l’obbligo di allontanamento dalla famiglia e di ritorno a Gaza o in Cisgiordania.
Legge sulla cittadinanza, quando e perché fu approvata
La legge fu voluta nel 2003 dal partito Likud (centrodestra) dell’allora premier Ariel Sharon, e fu approvata durante la Seconda Intifada, la rivolta palestinese durata dal 2000 al 2005. Alla base della norma soprattutto esigenze di sicurezza nazionale. Come riporta il Jerusalem Post, citando fonti del governo di Tel Aviv, il testo fu approvato perché parecchi attentatori palestinesi avevano ottenuto lo status per vivere in Israele attraverso le leggi sul ricongiungimento familiare. Dal 2001, quelle leggi avevano dato a circa 155 persone, poi coinvolte negli attacchi, il permesso per trovarsi nello Stato ebraico.
Questa legge, però, ha avuto un risvolto della medaglia, finendo per tutelare la maggioranza ebraica della popolazione israeliana a discapito della minoranza palestinese. Per questo motivo partiti arabi e di sinistra, Ong e associazioni varie l’hanno pesantemente criticata, bollandola come discriminatoria. La disposizione, intanto, in origine temporanea, è stata rinnovata di anno in anno, fino al 2020.
Legge sulla cittadinanza, perché se ne parla adesso
Al momento, ci sono 9.200 persone nel Paese col permesso di soggiorno ottenuto dopo aver sposato un cittadino arabo-israeliano. Ogni anno sono circa mille le richieste per nuovi permessi che arrivano al ministero degli Interni. Sono 3.500, invece, i cittadini palestinesi che godono di un visto di residenza temporanea.
Da adesso, però, tutti i palestinesi privati in questi anni della possibilità di chiedere visti di residenza, o anche la stessa cittadinanza, potranno farlo. E questo perché, per la prima volta in 18 anni, la Knesset (il parlamento di Tel Aviv) non ha rinnovato la legge. A votare contro sono state anche due forze del governo di coalizione guidato da Naftali Bennett: Ra’am, rappresentante degli arabi israeliani, e Maretz, formazione di sinistra. A sorpresa, però, si è opposto anche Likud, il partito dell’ex premier Benjamin Netanyahu che non solo aveva scritto e approvato la legge, ma l’aveva anche rinnovata ogni anno. Non per ragioni ideologiche, ma per mera opportunità politica, per mettere in difficoltà il governo nato da appena tre settimane. L’ex primo ministro ha detto di aver votato contro per «verificare l’impegno sionista» dell’esecutivo e trasformare quella norma, transitoria, in una legge fondamentale dello Stato. Ma è sembrata solamente una scusa per mettere i bastoni tra le ruote a un governo che gli ha tolto il potere dopo 12 anni.
Gli effetti, però, si sono visti subito: attraverso l’Ong Hamoked, un’organizzazione che lotta per i diritti dei palestinesi, i cittadini dei Territori occupati sposati con israeliani hanno iniziato a presentare le domande per ottenere la cittadinanza o la residenza. Dal momento che la legge non è stata prorogata, adesso potranno richiedere il visto B1 (il permesso di lavoro per gli stranieri), quello A5 (sulla residenza temporanea) e, per ultima, la cittadinanza. La ministra degli Interni Ayelet Shaked, del partito Nuova Destra del premier, ha però dichiarato l’intenzione di riportare la legge in parlamento per una nuova votazione. Dovesse passare, la porta per la naturalizzazione di migliaia di palestinesi che vivono e hanno famiglia in Israele si chiuderebbe di nuovo.