«La gente dice che questo lavoro sia pericoloso, ed è vero». Hoda Khaled ha 33 anni ed è una delle 14 donne scelte e addestrate per rimuovere mine e ordigni inesplosi nella città di Bassora, in Iraq. «Noi iracheni siamo stati costretti, negli anni, ad affrontare innumerevoli difficoltà», ha spiegato a Vice, «Ad assistere a terribili esplosioni che, davanti ai nostri occhi, hanno distrutto mercati e strade. Il nostro lavoro è rischioso, ma non più della vita quotidiana».
Iraq, un Paese ricoperto di mine
Secondo l’ultimo report del Servizio di Azione Contro Le Mine delle Nazioni Unite, in Iraq decenni di conflitto hanno lasciato in eredità 2,7 miliardi di metri quadri di terra completamente ricoperta esplosivo. Per intenderci, un’area più o meno equivalente a tre volte e mezzo la superficie di New York. Le bombe rimaste inesplose rappresentano un pericolo per i cittadini che vivono nei paraggi, in particolare per i bambini che in questi luoghi, spesso si ritrovano a giocare.
L’area maggiormente interessata comprende i territori collocati attorno alla città di Bassora, nodo strategico importante nelle dinamiche della guerra in Iraq. A pensare di inserire le donne nel programma di training per la pulizia dei territori interessati dal conflitto, per velocizzare il processo di raccolta e limitare i danni, è stata la compagnia privata Al Bayrak, incaricata dell’attività.
La squadra femminile di Bassora, al termine dell’addestramento, si aggiungerà a quella di Mosul, creata dall’Unmas per agire nella seconda città più estesa del Paese, celebre per essere stata una delle roccaforti dell’Isis. «Sia le apprendiste che l’azienda hanno dovuto superare diversi ostacoli. Il lavoro delle donne è parecchio limitato nel sud dell’Iraq, soprattutto quando si tratta di professioni del genere», ha spiegato Walid Saadoun, executive manager di Al Bayrak, «Dopo tanta fatica, tuttavia, siamo riusciti a rompere questo tabù. L’impegno delle ragazze ci ha incoraggiato a supportarle, aiutarle a migliorarsi».
Famiglie contrarie: «Troppo pericoloso»
La scelta di Khaled di dedicarsi a una professione così rischiosa non è stata accolta bene dalla sua famiglia. «La loro avversità dipende dal peso delle tradizioni e, ovviamente, in grossa parte dalla paura», ha raccontato. «Parlare di mine spaventa chiunque. I membri della mia famiglia temono possa perdere un braccio o un occhio, se qualcosa dovesse andare storto». Numerose esercitazioni e un equipaggiamento, per quanto possibile, adeguato: non esistono altri strumenti per contrastare la paura. A ciò si aggiunge la voglia di emancipazione, in un contesto, comunque, complesso: «Non ci sono mestieri per uomini e mestieri per donne, bisognerebbe puntare alla parità. Ho scelto di farlo, perché voglio ripulire la mia città macchiata da 40 anni di conflitti».
Una storia che la accomuna a quella della collega Hend Hussein, 32enne laureata in filosofia, che ha dovuto faticare per sfatare i pregiudizi e ottenere l’appoggio dei genitori: «Adesso, mi ripetono ogni giorno quanto siano fieri di me, ma molti uomini ancora credono che le donne siano tagliate per fare una simile professione. Forse perché la tradizione li spinge a farsi influenzare dagli stereotipi, forse perché hanno paura di perdere autorità. Il Paese, però, ora ha bisogno di tutti, senza distinzione».
Alla ricerca di una professione
E alla fine del corso, che ne sarà di Khaled e delle sue colleghe? La speranza è quella di trovare una professione in questo campo, lavorare per il governo o per un privato. Tutto pur di non rimanere disoccupata e senza autonomia. «Ormai non temo più il pericolo. Spero solo di firmare presto un contratto di lavoro. Prima però voglio imparare quel che c’è da sapere per liberare il Paese da questi ordigni e, soprattutto, proteggere gli innocenti».