Milano, maggio 2022. Tornato a Milano non avevo più voglia di fare niente. Quando non ero dietro al bancone del bar a preparare drink più che altro passavo il tempo steso sul divano a fumare erba o in fissa sullo schermo del Mac a guardare vecchi film. Frantic di Roman Polanski. Subway di Luc Besson. Bande à part di Godard. In definitiva cercavo di restare a Parigi, almeno con la testa, il più possibile. E giù ancora: Midnight in Paris di Woody Allen, À bout de souffle di Godard, The dreamers di Bernardo Bertolucci. Perché in fondo, come ha scritto di recente Eleonora Marangoni nel suo ultimo libro intitolato Paris, s’il vous plaît, appena pubblicato da Einaudi, citando Casablanca: «Qualunque cosa accada, comunque, avremo sempre Parigi». Uscivo da mesi di frullatore e a Parigi, per la prima volta dopo mesi, avevo avuto la possibilità di fermarmi un momento a riflettere. Per tre giorni niente Belle Aurore, niente articoli da scrivere, libri da leggere, playlist da preparare, trasmissioni da mandare in onda. Poi una sera, a una cena molto sexy e molto trendy in una sala dell’Hotel Crillon durante la quale non riuscivo a comunicare con nessuno, ho avuto una serie di deja-vù e ho capito che stavo sbagliando tutto.
[Sestriere, Capodanno 2009. Il locale è stracolmo fino alla nausea, io devo avere esagerato con lo champagne e con i brindisi di mezzanotte e la cocaina che mi sono fumato prima di entrare, a dire il vero, non è che abbia aiutato più di tanto. In ogni caso ci siamo, tocca a me. Sotto la consolle sento gridare il mio nome, sono quasi le due, fermo la musica prima di mettermi le cuffie, le luci del locale si spengono, dalla pista videofonini e macchine digitali, urla e applausi, poi sbatto sul piatto il primo disco e appena parte la cassa è come un boato. Sono partito cattivo, niente intro o preamboli di chissà che genere, sono triste stasera. E incazzato. Le luci delle strobo si schiantano al centro della sala da ballo mentre gambe e braccia di ragazzi sudati si muovono incessantemente nella bolgia infernale, io guardo in basso con la solita aria di disgusto ma poi faccio il gigione, ballo sculettando allegramente sui miei pezzi anche se dentro sono in frantumi come il flùte che mi è caduto poco fa mentre cercavo al centro della borsa un remix di Boosta intitolato Dance is dead. Sarebbe bastato che stamattina fosse passata da me, anche solo per un saluto, ed io avrei fatto saltare tutto. Sestriere, Allegra, Capodanno, la serata in discoteca, tutto. Invece ora Ofelia è a Bergamo o chissà dove con suo marito e io sono qui, strafatto in consolle, con un vinile in mano. Allegra mi raggiunge con passo spedito, ondeggiando sui tacchi, facendosi largo tra la folla. In tanti anni che siamo stati assieme credo sia al massimo la seconda volta che viene a sentirmi suonare in discoteca, e il fatto che abbia scelto proprio questo periodo per bissare l’esperienza mi ha stupito non poco. La nostra storia, risorta dalle proprie ceneri come l’araba fenice già innumerevoli volte, sembra essere arrivata al capolinea, e anche se la guardo mentre balla o le accarezzo il volto e la bacio non cambia nulla, perché io sono innamorato di un’altra persona. E poi che cazzo, io odio la montagna.]
L’altro giorno un tizio mi ha detto: «Scrivi il tuo romanzo, dai una forma ai tuoi racconti, decidi qual è esattamente la storia che vuoi raccontare», come se non capisse che a nessuno interessa quello che scrivo e che soprattutto le storie che racconto non sono la vita di Andrea Frateff-Gianni
La sera dopo vado con Ofelia a mangiare al Mimosa, un nuovo ristorante super trendy, sempre in Place de la Concorde, e al tavolo di fianco al nostro c’è l’ex presidente della Repubblica Sarkozy con due gorilla e tre uomini in abito scuro. Indosso una camicia BD Baggies botton-down a righe bianche e azzurre, un paio di pantaloni blu e dei mocassini college. Mi guardo nello specchio all’entrata e oggettivamente mi trovo ultrafigo. Ofelia, in abito lungo blu Azhar si limita a sorridermi, sceglie il vino, sembra distratta. «Bel vestito», le dico, senza alzare lo sguardo. Poi come inizia la cena finisce e a un certo punto divento silenzioso, mi sento malinconico, incapace di relazionare. Il Mimosa è affollato in modo impossibile e le cose ancora una volta non sono chiare come avrei bisogno che fossero. «Oh, non avere quell’aria triste», dice Ofelia, e poi aggiunge: «Sei una star». «È la prima volta che me lo dici baby», dico, e poi continuo, «è la stessa cosa che mi ha detto Styng settimana scorsa». «C’è qualcosa che non va? Hai un’aria triste. Hai deciso cosa fare con la radio?». «Non ancora piccola», le rispondo, «non ancora». «Le cose cambiano, il tempo passa. Hai letto che persino la Apple ha deciso di non produrre più iPod? Non ti sembra ieri il giorno in cui hanno iniziato a circolare?», dice Ofelia. E in effetti, se ci penso, questi ultimi 20 anni sembrano essere passati in un lampo.

[Barcellona, estate 2005. Quando arrivi con l’aereo la noti subito. Alta, colorata, con sfumature indefinite, dalla forma provocatoria. La Torre Agbar è come un proiettile di 142 metri sparato sullo skyline di Barcellona. Davanti a lei, poco distante in linea d’aria, la Sagrada Familia di Gaudì. I due edifici si guardano, quasi si chiamano. In mezzo, sul terrazzo di un attico, spaparanzato su una sdraio c’è il vostro affezionato, circondato da decine di bottiglie di birra vuote e da una serie di portaceneri strabordanti, che fissa il vuoto. DFA è probabilmente già svenuto nella sua camera e l’attico è deserto, silenzioso, immobile. Metà delle stanze sono senza energia elettrica, così la notte l’appartamento è sempre buio, oscuro, misterioso, illuminato solo dall’esterno dalle luci degli altri palazzi. Il terrazzo sembra un campo di battaglia, vicino alle Stan Smith, buttate in un angolo, troneggia Delitto e Castigo di Dostoevsky. Il vostro si accarezza il cranio rasato a zero, tira avidamente dallo spino di ganja, nota una lieve abbronzatura diffusa sul suo corpo mentre una serie di svarioni gli detonano il cervello e la testa non la smette di girare. Indossa una t-shirt bianca con sopra scritto UGLY a caratteri cubitali e un paio di boxer a righe bianche e blu. Alle orecchie ha un paio di auricolari e un oggetto bianco con un piccolo schermo a cristalli liquidi stretto tra le mani. «Questo è un iPod, fratello», gli ha detto DFA nel pomeriggio mentre, stesi uno di fianco all’altro sulla spiaggia de La Barceloneta, fumavano erba e bevevano birra. «È un oggetto straordinario, praticamente ti consente di diventare il deejay di te stesso», e il vostro, esterrefatto, non riusciva proprio a capire come fosse possibile che un marchingegno così piccolo potesse contenere tutta quella musica. E di colpo sentiva tremendamente di essere un coglione, con il lettore di compact disc nello zaino, le batterie ricaricabili e la custodia con dentro tutti i cd. ]
Così, come dicevo, dopo tre giorni idilliaci io e Ofelia siamo tornati a Milano. Che fare adesso? Affittare una barca a vela per passare i week-end del mese di giugno? Vedere Styng, Ale Cash, altra gente che mi avrebbe potuto aiutare a capire? Comperare dei voli per trasferirsi all’Ortigia? Chiarire con Alb, il mio socio radiofonico, il nostro futuro? Scappare in un hotel a Venezia? L’altro giorno un tizio mi ha detto: «Scrivi il tuo romanzo, dai una forma ai tuoi racconti, decidi qual è esattamente la storia che vuoi raccontare», come se non capisse che a nessuno interessa quello che scrivo e che soprattutto le storie che racconto non sono la vita di Andrea Frateff-Gianni. Così, quella sera, avvolto in un telo mare tunisino, comprato in un negozio del Marais di nome Fouta, pensai: fissa i tuoi obiettivi, intensifica le sedute di analisi, diventa più cattivo, depilati dalla testa ai piedi, tatuati sull’avambraccio lo stemma di famiglia, seppellisci tuo padre, esibisci l’atteggiamento gangsta ma con grande distacco. Costringili ad accettare il tuo talento, anche se sai tremendamente di non averne alcuno. Così, sfogliando sull’iPad una copia del Corriere della Sera di un paio di giorni prima, ti venne in mente l’idea, leggendo la notizia che la figlia di Ligresti, Giulia, aveva appena ottenuto un risarcimento di 1000 euro al giorno per ingiusta detenzione, disposto dalla quinta corte d’appello di Milano, per 16 giorni trascorsi in carcere, quelli dal 17 luglio al 2 agosto 2013. Fu quello il momento in cui capii che la protagonista femminile della storia sarebbe potuta essere Vittoria e che il racconto avrebbe dovuto parlare innanzitutto degli avvenimenti decisivi della mia adolescenza e della mia infanzia, per finire con l’anno della maturità al Parini di Milano e la mia successiva iscrizione (dopo una delirante estate divisa in due tra Londra e la Grecia in compagnia di Nosama e DFA), alla facoltà di lettere e filosofia.
Quella sera, avvolto in un telo mare tunisino comprato in un negozio del Marais, pensai: fissa i tuoi obiettivi, intensifica le sedute di analisi, diventa più cattivo, depilati dalla testa ai piedi, tatuati sull’avambraccio lo stemma di famiglia, seppellisci tuo padre. Costringili ad accettare il tuo talento, anche se sai tremendamente di non averne alcuno
[Milano, inverno 1996. Avevo conosciuto Vittoria un pomeriggio in San Babila, alla discoteca minorile Madame Claude, entrambi 16enni, in Barbour e Ralph Lauren. Uscivo da scuola e il pomeriggio andavo a casa sua in via Marina. Un appartamento enorme, senza mobili, che divideva con la madre, dopo l’arresto del padre e la fuga della sorella maggiore Carla, che si era messa a vivere per strada a Parigi. Vittoria era la figlia di Antonio Belvedere, l’avvocato di Salvatore Ligresti, il potente costruttore-finanziere che nei primi Anni 80 ha dominato indisturbato la scena edilizia milanese. Quando ci siamo messi assieme Vittoria frequentava la quinta ginnasio al Berchet e ancora non sapevo che già fumasse quella specie di mix tra ero e coca con dei ragazzi più grandi. Quando lo venni a sapere le dissi di limitarsi a sniffare un po’ di bamba al massimo, come del resto facevo anch’io e più o meno tutti quelli che frequentavamo all’epoca. Con Vittoria si scherzava sui reati dei nostri padri, ma il suo se possibile era addirittura peggio del mio e ricordo che un giorno le telefonò dopo circa tre mesi che non si sentivano per chiederle cosa ne pensasse dell’idea di vendersi un rene per salvare la Porsche gialla parcheggiata in garage alla quale teneva tanto. Con Vittoria pippavamo e passavamo i pomeriggi a guardare canali porno a pagamento mentre ci masturbavamo a vicenda sul grosso divano di pelle del suo salotto, anche se di scopare, chissà perché, non se ne parlava. Più che altro le piaceva limonare e strabuzzare gli occhi verde smeraldo. Vittoria non mangiava quasi mai perché si sentiva grassa e quando le ricordavo che pesava solo 52 chili e che sembrava Kate Moss, però alta, digrignava i denti e mi accusava di spiarla, come del resto faceva sua madre, che da quando era sparita sua sorella le aveva messo un investigatore privato alle costole per controllare quello che faceva. Erano gli anni a Milano delle cosiddette spedizioni, dei raid, dei saccheggi e delle devastazioni. Si entrava abusivamente nelle case di qualche figlio di papà che quella sera dava una festa, magari di compleanno, e si spaccava tutto, si razziava quel che si trovava e poi si scappava a gambe levate. Il migliore era sicuramente Albertone, figlio di un alto dirigente dell’ALER, lo chiamavano Lupin III, quando entrava in azione lui non ce n’era per nessuno. Una sera durante un’irruzione a casa della marchesina Sveva Casati Caronni ricordo che prese un Girard Perregaux scassinando un cassettino quasi blindato. Un colpo da maestro. I soldi di certo non ci mancavano, ma li spendevamo per altro, l’unica cosa che ci interessava era scatenare il panico. Fu proprio quella sera che, scappando, mi ritrovai per caso al Leoncavallo e vidi Vittoria, probabilmente strafatta di brown, seduta sulle ginocchia di un tizio con indosso una maglietta dei Rancid e la cresta da mohicano. Per un po’ l’ho osservata senza che se ne accorgesse e lei spettinata, sudata, con i vestiti luridi e le unghie sporche quando si rese conto che ero di fronte a lei che la stavo guardando, con tutta la naturalezza del mondo, mi lanciò un’occhiata quasi di sfida, si voltò e come se fosse una cosa assolutamente normale, prese tra le mani la faccia del ragazzo con la cresta da mohicano e si mise a baciarlo con foga. Fu quello il momento in cui me ne andai. Non la vidi mai più].