Il primo quadrimestre del 2022 si è chiuso e i mercati finanziari, termometro della percezione degli investitori, raccontano un anno che non iniziava così male dagli Anni 50. Il contesto si sta rivelando particolarmente difficile per la correlazione elevata su tutte le asset class, dando pochissimi angoli di luce agli investitori: l’indice global aggregate obbligazionario è sceso, da inizio anno, di oltre 11 per cento, poco diverso dal -12 riportato dall’indice azionario globale. La maggior parte degli choc geopolitici non ha un impatto duraturo sull’economia e sui mercati; vengono riassorbiti velocemente. C’è un’ampia statistica a supporto. Tuttavia, nel caso dell’invasione Ucraina, la conseguenza è stata di approfondire e rendere più strutturale un grave problema preesistente: l’inflazione, perché questa deriva dalle carenze di beni e dalle difficoltà di logistica e trasporti. E l’interscambio e le carenze – nel clima di guerra – soffrono. Da qui deriva il radicale cambio di atteggiamento delle Banche Centrali che si sono fatte restrittive per prevenire una spirale inflattiva. Gli acquisti di asset vanno riducendosi per azzerarsi ormai a breve, e questo di fatto drena (e drenerà) liquidità dai mercati.

Il prolungarsi della guerra in Ucraina porterà a una ‘sglobalizzazione’
Le ambizioni russe di una rapida vittoria sono state deluse. Respingere completamente l’invasione, tuttavia, resta un obiettivo irrealistico per l’Ucraina. I colloqui per un armistizio restano quindi in stallo, entrambe le parti sono in un “imbuto” che porta verso una lunga battaglia. E la prospettiva di una escalation che possa allargare il conflitto rimane sullo sfondo. Ciò significa che le carenze di energia e cibo che cominciano a farsi sentire in Europa e altrove sono destinate a peggiorare (e di questo le economie emergenti ne soffriranno ben più di quelle sviluppate, proiettando facili previsioni su nuovi flussi migratori nei mesi che verranno). L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha avvertito che l’impatto sull’offerta di petrolio è a un picco, lasciando il mondo con un buco di tre milioni di barili al giorno da riempire. Sembra quindi che la spare capacity dei produttori si sia esaurita e con essa la possibilità di aumentare l’offerta per sfruttare il momento di prezzo, facendolo scendere. Per tutte le altre materie prime esistono altrettanto fondati argomenti per pensare che il loro prezzo possa continuare a salire o a restare su questi livelli. Ma con la continuazione della guerra, altri danni economici si faranno più duraturi. Tra questi il processo di “sglobalizzazione”. Paesi storicamente neutrali alle vicende del mondo sentono sempre più l’urgenza di “schierarsi”: Finlandia e Svezia chiedono di unirsi alla Nato, altri Paesi mostrano simpatie per la Russia, che è molto meno “isolata” di quanto ci raccontiamo: i 35 Paesi astenuti nel voto Onu sulle sanzioni a Mosca rappresentano quasi metà della popolazione mondiale.
In Europa e in Usa l’aspettativa d’inflazione sta salendo
Dopo le interruzioni nella supply chain provocate dal Covid, questa corsa alla presa di posizione geopolitica getta un’ulteriore ombra sugli scambi internazionali e le possibilità di accesso ai beni. Di conseguenza, il mondo ha ormai abbandonato l’idea che l’inflazione sia transitoria. L’aspettativa d’inflazione sia in Usa che in Europa sta salendo con decisione. Tutto questo converge e accentua la risalita dei rendimenti, provocando un aumento del costo del capitale e di conseguenza dei rischi per la crescita: il Fondo Monetario Internazionale vede la previsione di inflazione per il 2022 in salita, mentre la previsione di crescita globale scende (da +4,4 per cento di gennaio scorso a +3,6 per cento oggi). L’elemento sempre più cruciale per i risultati aziendali, è ormai il pricing power: la capacità di un’impresa di alzare i prezzi dei propri prodotti o servizi al cliente, per assorbire l’aumento dei costi alla produzione. Ma questo contesto così difficile non deve distoglierci dalla stima degli sviluppi futuri che un mondo diviso in due minaccia di portare con sé. Che obiettivo ha la Russia di Putin? Davvero sta sbagliando tutti i calcoli? Se sul fronte militare l’invasione dell’Ucraina si sta trasformando in una dispendiosa guerra di logoramento, la conseguenza più importante e prevedibile era quella di polarizzare il mondo in due schieramenti, e questa si sta realizzando progressivamente. Dal punto di vista finanziario, ad esempio, abbiamo rapidamente imparato che le riserve delle Banche Centrali di tutto il mondo, abitualmente detenute in titoli Usa perché il dollaro è la valuta convenzionale di interscambio, sono esposte al rischio di sanzioni e congelamento. Quindi una gigantesca riallocazione di capitale potrebbe essere la conseguenza di aver scelto l’arma dell’economia anziché il deterrente militare. La Cina, ad esempio, detiene 1100 miliardi di titoli di Stato americani (e altri 400 miliardi di asset finanziari, come obbligazioni parastatali, obbligazioni corporate e azioni).

La possibile fuga dai titoli occidentali
In una prospettiva polarizzata, Pechino potrebbe decidere di alleggerirsene preventivamente per non essere bersaglio della stessa ritorsione che ha colpito la Banca Centrale russa, provocando una ulteriore impennata dei tassi. Lo stesso potrebbero fare i molti altri Paesi, non sicuri al 100 per cento di sentirsi “occidentali” se l’inerzia del mondo spingerà a doversi posizionare. Questo deflusso di capitali farebbe salire ulteriormente i rendimenti, ma forse l’aspetto più interessante è chiedersi dove questi capitali potranno allocarsi, in alternativa. Su titoli in euro? Non avrebbe alcun senso, per chi intende diversificare da asset “occidentali” per non trovarsi politicamente ricattabile. Allora, suggeriscono altri, su titoli cinesi in yuan? Posto che la capienza non c’è (il 97 per cento delle emissioni cinesi sono destinate oggi al mercato interno), un Paese terzo che scelga di diversificare dal dollaro può avere il timore di una policy ostile dagli Usa, ma avrebbe la certezza che Pechino ha ben poco riguardo della rule of law. Quindi anche questa opzione risulta improbabile. Resta quella di un ritorno in auge delle riserve auree, e forse – per praticità e scarsità di metallo giallo – di altri metalli, sempre più ricercati (e dunque “liquidabili”) per il cantiere globale della transizione energetica. Ecco allora che i prezzi delle materie prime potrebbero essere solo all’inizio di un ciclo storico di salita dei prezzi, trascinandosi dietro i costi della produzione e di conseguenza i prezzi finali dei prodotti (inflazione strutturale), in un mondo diviso in due dove metà della popolazione mondiale si ritrova in un qualche regime autoritario, in una economia grigia ma con abbondanza di materie prime, mentre l’altra metà vive in una democrazia liberale ricca per lo più di finanza e servizi, ma a corto di risorse naturali. In questa divergenza ideologica e culturale, oltre che di tessuto economico, andrebbe poi a installarsi una divergenza tecnologica: da una parte le tecnologie cinesi (su tutte una video-sorveglianza pervasiva a tutela degli autocrati e una rete 5G Huawei che legherebbe a doppio filo la Cina con i paesi membri della sua sfera di influenza) e dall’altra l’ecosistema tecnologico sviluppato dai soggetti privati che – con mille difficoltà – i governi democratici cercano di regolare. Ecosistemi diversi che produrranno comportamenti diversi, finendo per allargare il divario fra le economie. Perché se è vero che l’interdipendenza economica e il libero scambio non sono riusciti a produrre l’auspicata convergenza culturale, le diversità funzionano benissimo nell’allargare le distanze e rendere più complessa l’integrazione.