Messe in vendita a loro insaputa, nemmeno si trattasse d’oggetti d’antiquariato. Annunci falsi, corredati di foto e profili social, si susseguivano su un app creata con il solo scopo di barattare donne indiane musulmane in cambio di denaro. È l’ennesimo episodio discriminatorio contro una minoranza sempre più vessata nel Paese dalla comunità Indù. Come ha spiegato alla Cnn Hana Moshin Khan: «È a causa della mia religione», aveva tuonato a inizio luglio. Due mesi dopo la piattaforma fake è stata chiusa, ma nessuno, nonostante le denunce, pagherà per averla aperta. Insieme a lei, attivista e femminista, sono 80, tra giornaliste, scrittrici, influencer, ad essere finite all’asta su Sulli Deals. Un nome non casuale, ma epiteto dispregiativo usato dagli indù per identificare le donne. Queste, ignare di tutto, venivano proposte agli utenti che, almeno in linea teorica, potevano acquistarle.
I don’t use my surname in Uber and Ola.
I have a religion neutral first name.Am I hiding my Muslim identity?
Yes…you bet I am.
— Hana Mohsin Khan | هناء (@girlpilot_) August 24, 2021
India, nessuna legge contro il cyberbullismo
«Un’esperienza traumatica e terrificante», affermano le protagoniste. Non solo, un esempio lampante, della situazione con cui sono quotidianamente costrette a confrontarsi, a causa del ruolo dominante esercitato dagli indù. E rispetto alla quale le tutele sono minime. Se, infatti, Praveen Duggal, alto funzionario della polizia di Delhi ha confermato le indagini, ribadendo di non poter diffondere altri dettagli sull’operazione, in India non esiste una legge che punisca il cyberbullismo. Se a ciò si aggiungono le difficoltà dettate da un sistema legislativo lento e farraginoso, si comprende bene perché le denunce, in generale, latitino e siano spesso le famiglie stesse a mollare la presa prima di ottenere giustizia. Per episodi contro donne e bambini, le denunce sono state appena 7 nel 2017, 40 e 45 nel 2018 e 2019 ha spiegato il National Crimes Record Bureau e non si sa quante si siano effettivamente tradotte con una causa in tribunale e, eventualmente, una sentenza di condanna. In un contesto simile, non possono bastare le raffazzonate giustificazioni del ministro della Tecnologia Vaishnaw: «la crescita di internet ha avuto come contraltare l’impennata della criminalità informatica in tutto il mondo».
India, terreno fertile per il cyberbullismo
Si intuisce allora come gioco facile abbiano gli odiatori seriali: Khan ha 15mila follower su Twitter e con cadenza quotidiana riceve insulti: «Il volume delle offese, già alto, è cresciuto esponenzialmente con l’introduzione dell’app. Questo perché gli uomini si sentono minacciati dalle donne musulmane, ritenute troppo schiette e libere di pensare». Su 580 milioni di donne in India, corrispondono al 6,5 per cento. Tra loro anche la poetessa Nabiya Khan, le cui opere vengono pubblicate su Internet allo scopo «di amplificare la voce degli emarginati. Certi uomini pensano che la violenza sessuale sia il modo giusto per colpire una donna che non ha paura di dire cosa pensa. Ho sporto denuncia, ma non è stato fatto nulla e ciò ha scatenato ulteriormente la mia rabbia».
The onus to fight against the rot in the Indian society should be on the majority. Muslims are tired of doing all the heavy lifting. Your condemnation tweets aren’t enough. Not taking anything away from anyone but it’s high time to rise against this rot.
— Nabiya Khan | نبیہ خان (@NabiyaKhan11) August 9, 2021
Un dramma aggravatosi per la comunità islamica con l’approdo al governo del Bharatiya Janata Party di Nerendra Modi, nel 2014. Da allora numerosi provvedimenti sembrano stati emessi con lo scopo di prenderla di mira. Emblematico quello sulla cittadinanza varato nel 2019. Secondo la disposizione i cittadini stranieri di alcuni Paesi avrebbero potuto usufruire di canali privilegiati per ottenerla, tranne se non fossero stati di religione islamica. D’altronde anche secondo un sondaggio condotto tra le forze di polizia «i musulmani sarebbero per natura inclini a commettere crimini». Ne è convinta la metà dei 12mila agenti interpellati.
Donne indiane, le più insultate sul web
E se essere islamici in India è difficile, essere donne, e musulmane, è anche peggio. In un rapporto di Amnesty International del 2019, si legge come le politiche indiane ricevano il doppio degli insulti online rispetto alle omologhe statunitensi e del Regno Unito. Su 7 milioni di tweet che le menzionavano oltre un milione era offensivo. Il motivo lo riferisce Zakia Soman, fondatrice del Movimento delle donne musulmane indiane: «Conservatori e radicali prendono di mira le donne sul web e se sono musulmane l’odio diventa bestiale. Sono ossessionati dal loro modo di fare e dalla volontà di mostrare dissenso per certe politiche del Paese. Metterle all’asta è sintomo di una mentalità medievale».
E non è la prima volta che accade. A maggio un account Youtube indiano, Liberal Doge, ha caricato un video in cui si mettevano all’asta donne musulmane pakistane, con tanto di fotografie diffuse rigorosamente senza consenso. Rimosso dal social per averne violato la policy, la stessa sorte è toccata ad altri 3 account simili, ma non è chiaro se dietro ci sia la stessa persona. Anche in questo caso, nonostante denunce e allarmi, nessuno è stato arrestato o indagato.