L’unico ricordo che ho, legato alla famiglia reale bulgara, proviene da un racconto di mio padre che un pomeriggio dell’estate del 2001, mentre ci bevevamo uno di fronte all’altro un paio di Campari shakerati al bar dell’Hotel Posta a Moltrasio, commentando l’elezione di Simeone di Sassonia-Coburgo-Gotha appena nominato primo ministro di Bulgaria, mi disse che quando nacque, il 16 giugno del 1937, a Sofia, e in tutto il Paese, fu proclamata festa nazionale e ai bambini fu permesso di non andare a scuola. Mi raccontò anche che in patria Simeone, soprannominato “il re bambino”, fu anche zar di Bulgaria dal 1943 al 1946, dopo l’improvvisa morte del padre Boris III quando lui aveva solo sei anni, fino a quando un referendum plebiscitario abolì la monarchia alla fine della Seconda Guerra mondiale e decretò la nascita della Repubblica Popolare, formata in accordo tra i sovietici e i comunisti bulgari. Dopo il referendum, il 16 settembre 1946, Simeone partì insieme alla famiglia per Alessandria d’Egitto (dove tra l’altro risiedeva anche il re Vittorio Emanuele III in esilio dall’Italia), e poco più tardi anche mio padre lasciò il Paese per trasferirsi definitivamente in Italia, scappando a sua volta dal regime, rifugiandosi nel lussuoso appartamento di Viale Bianca Maria, nel centro di Milano, dalla sua nuova famiglia adottiva, formata da sua zia Zhora e da suo zio Giommi.

Ricordo anche, di quel pomeriggio a Moltrasio, oltre al fatto che ero arrivato al lago completamente stravolto perché non dormivo da due giorni e due notti filate dopo un weekend di bagordi con i ragazzi, che, in preda a postumi da sbronza e palesemente sfasciato, ascoltavo molto interessato le storie che mi stava raccontando mio padre e che entrambi, chissà per quale motivo, indossavamo due completi blu praticamente identici. Tuttavia sembrava che durante quei giorni chiunque attorno a noi indossasse un completo, perché ricordo in giacca e cravatta anche mio zio Nando e mio cugino Giorgio che successivamente raggiungemmo a un pranzo dove attaccammo tutti e quattro a bere champagne che, con estrema probabilità io, pallido cadaverico, mischiavo con del clonazepam. Mio padre a tavola raccontò inoltre che quella fuga del 1946 fu la seconda volta che le sorti della nostra famiglia si incrociarono con quelle della famiglia reale, perché già nel 1923, quando lui non era ancora nato, suo nonno, Canko Cerkovski, a causa del colpo di Stato organizzato il 9 giugno dalle forze armate della Lega militare, venne arrestato e imprigionato. Suo nonno, al quale in Bulgaria sono dedicate ancora oggi strade e scuole, fu un importante poeta e scrittore, oltre che esponente di primo piano del Partito Contadino bulgaro del quale fu prima deputato e successivamente nominato ministro della Cultura. Il colpo di Stato del 1923, legittimato con un decreto dello zar Boris III, rovesciò il governo dell’Unione Nazionale Agraria Bulgara, movimento che non era alleato alla monarchia, ed esautorò e uccise il suo leader Aleksandăr Stambolijski, la cui testa venne tagliata e spedita allo Zar in una grossa scatola di biscotti con un cartellino su cui vi era scritto: «Ci abbiamo pensato noi per voi». Suo nonno rimase così in carcere per quasi tre anni e solamente pochi giorni prima del suo decesso riassaporò la libertà, grazie alla scarcerazione nel 1926, qualche mese dopo la nascita di mio padre.

Alla fine di quel pranzo ricordo che avevo pregato mio cugino Giorgio di accompagnarmi a casa a Milano perché ero troppo sconvolto e sulla strada del ritorno gli avevo raccontato tutto esaltato che la settimana prima mi ero trovato a condividere della cocaina nei bagni del Plastic con un writer molto noto in città, che avevo paragonato a Keith Haring o Jean-Michel Basquiat, giusto per fargli capire di cosa si trattasse. Quel luglio del 2001, inoltre, mi ero fissato sull’idea di scrivere un romanzo che in quel periodo, dopo che per due volte consecutive non ero stato ammesso agli esami di maturità, era diventato la mia unica fonte di lucidità. Scrissi l’intero manoscritto in un appartamento preso in affitto al sesto piano di un palazzo liberty all’inizio di Viale Corsica che dividevo con mia cugina Laura, che aveva un futon sul pavimento e qualche arredo casuale sparso qua e là, oltre a un elaborato impianto stereo hi-fi che costava una fortuna e uno scrittoio improvvisato in un corridoio vicino all’entrata. Oggi l’appartamento preso in affitto al sesto piano del palazzo liberty all’inizio di Viale Corsica passerebbe come una location chic-minimalista ma allora era semplicemente una casa vuota arredata a caso da due persone a cui non poteva fregare di meno. Il romanzo comunque non venne mai scritto e io, dopo essermi drogato incessantemente per un mese tra la Costa Azzurra, Cadaques, Forte dei Marmi e Riccione, la stessa estate, partii per Londra, in compagnia del mio amico Nosama, e ci rimasi tre mesi, ospite in una gigantesca casa in Queens Gate, davanti a Hyde Park, di proprietà del celebre compositore Vangelis. Divagazioni a parte, comunque, quella fu la The Crown bulgara che mi venne narrata, quel pomeriggio di luglio del 2001 all’Hotel Posta di Moltrasio, a poche decine di metri di distanza dalla villa-castello dove vivevano i miei zii al lago, durante uno degli schizofrenici incontri che all’epoca avevo saltuariamente con la mia famiglia. Mi bastò però per capire che mio padre non aveva particolare simpatia per quella che era stata per lungo tempo la casata regnante del suo Paese, impressione che fu in un secondo momento confermata dal fuoco di paglia che si dimostrò essere il tentativo di governo di Simeone, che tra l’altro ebbe vita brevissima, verso cui il popolo perse rapidamente fiducia, facendo crollare rapidamente l’alone di tripudiante ammirazione in cui l’ex zar s’era crogiolato all’inizio dell’avventura che lo aveva riportato in patria dopo oltre 50 anni di esilio.
Mio padre raccontò che quella fuga del 1946 fu la seconda volta che le sorti della nostra famiglia si incrociarono con quelle della famiglia reale, perché già nel 1923, quando lui non era ancora nato, suo nonno, Canko Cerkovski, a causa del colpo di Stato organizzato il 9 giugno dalle forze armate della Lega militare, venne arrestato e imprigionato
Tutto questo lo racconto perché oggi si incorona finalmente alla tenera età di 73 anni, all’abbazia di Westminster di Londra, Carlo d’Inghilterra, con una cerimonia che, a 70 anni di distanza da quella che proclamò sua madre Elisabetta regina, si appresta a diventare un evento storico. Se non ho mai particolarmente subito il fascino delle famiglie reali, Windsor in testa (a parte qualche sega giovanile dedicata a qualche scollatura particolarmente invitante di Lady Diana, sbirciando qualche giornaletto scandalistico dell’epoca), è anche vero che da mesi ho sul comodino Spare, la biografia del principino Harry, rimasta stabile di fianco al mio letto da quando è uscita, mentre nel frattempo uno dopo l’altro si sono avvicendate decine di romanzi e saggi di cui mi sono dovuto occupare per lavoro. Inutile dire che Spare, scritto da un asso della letteratura e Premio Pulitzer come J.R. Moehringer che in precedenza si era già occupato dell’autobiografia di Agassi nel 2009 e di quella del fondatore della Nike Philip Knight nel 2016, oltre a essere un grandissimo libro è anche un documento straordinario, dove per “straordinario” si intende unico nel suo genere. La versione di Harry, appunto, insider per eccellenza, nipote di una regina, figlio di un re, fratello di un erede al trono.

Credo che per quanto mi riguarda questa affezione per il principino sia parente stretta di quella che provo leggendo il libro appena uscito dedicato ad Edoardo Agnelli, Crazy Eddie, o per Kendall Roy mentre guardo Succession, immedesimandomi a pieno in questi personaggi irrisolti, problematici, depressi, tossicomani, a volte suicidi, trattati da reietti da chiunque, in primis dalla propria famiglia. Non per niente l’articolo tra quelli che ho letto sull’incoronazione questa settimana che mi ha maggiormente colpito è stato quello sul Corriere della Sera, scritto da Luigi Ippolito, che raccontava come Harry sarà relegato in seconda fila all’Abbazia di Westminster, non parteciperà alla processione regale, non apparirà sul balcone di Buckingham Palace e non sarà presente alla festa al castello di Windsor, ma comunque andrà all’incoronazione perché in fondo «è la giornata più importante nella vita di suo padre». Credo che le motivazioni che spingano il principino, nonostante la totale rottura con il resto della famiglia, a partecipare ostinatamente a un appuntamento come questo, siano le stesse che al tempo portavano il me 21enne a presentarmi strafatto senza aver dormito con l’abito blu di Ralph Lauren ai pranzi di famiglia sul Lago di Como. E credo anche che sia proprio per questo quasi sadico e autolesionistico senso di appartenenza che sul profilo whatsapp e sulla mia pagina di Instagram al posto di una mia foto ho messo l’immagine dello stemma di famiglia. La stessa famiglia che ha minacciato di denunciarmi se avessi continuato a parlare di loro nella mia rubrica di racconti settimanale. «God save the queen/The fascist regime/They made you a moron/A potential H bomb», cantavano i Sex Pistols.