Esco dal Colosseo in Piazza Cinque Giornate dopo aver visto il nuovo Batman di Matt Reeves e mentre rollo uno spino di ganja legale, di fronte al cinema, osservo le vetrate colorate del Coin che ha costruito mio nonno con la solita dose di malinconia e disprezzo. Fa piuttosto freddo per essere marzo, così mi tiro su il cappuccio del Woolrich e come ho finito il joint slego la bici dal palo e salto in sella alla mia Rossignoli color blu diplomatico diretto verso casa con gli AirPods infilati nelle orecchie e Something in the Way dei Nirvana, pietra angolare dell’imponente colonna sonora del film, sparata al massimo del volume.
Da sbarbo fiordilatte, nel pieno periodo disagio, Kurt Cobain aveva preso nel mio cuore il posto di Jim Morrison e ricordo, mentre pedalo, che all’epoca rimasi piuttosto affascinato dal fatto che nel marzo del 1994, quando venne caricato a bordo di un’ambulanza e trasportato prima al Policlinico Umberto I e poi all’ospedale angloamericano in seguito a un’overdose causata da un cocktail di Flunitrazepam, ovvero pastiglie Roipnol, e champagne, gli vennero trovati, stretti ai polsi, una coppia di orologi, formata da un Rolex d’oro a quello sinistro e il quadrante di un Cartier su quello destro. Probabilmente fu quello il motivo che mi indusse, all’età di 16 anni, a iniziare a indossare anch’io due orologi contemporaneamente, due Swatch, per l’esattezza uno Scuba ed un Chrono, che collezionavo avidamente fin dalle scuole medie.

Nevermind dei Nirvana da una parte e SXM dei Sanguemisto dall’altra, furono sicuramente, se dovessi scegliere due album iconici di quel periodo, la colonna sonora ideale degli anni scapestrati ed elettrici della mia gioventù. L’incoscienza assoluta, il vandalismo, le droghe, i degeneri di ogni tipo, le fughe, gli arresti e compagnia bella. E così, ancora una volta, sono tornato con la mente a quegli anni. Anni in cui, con la mia eleganza disperata da superstite, da sbarbo fiordilatte e disertore liceale professionista, con le palline di caramello in tasca, l’Alverman nel Barbour e la musicassetta gialla dei Sanguemisto nel walkmam, passavo le mie mattine atteggiandomi ad eterno maledetto, a superstar della droga, tra l’aula quarta del Politecnico e il parco Sempione, in Stan Smith e Ralph Lauren, cercando di sembrare contemporaneamente un po’ intellettuale e un po’ malavitoso. Quegli stessi tempi, in cui con i regaZ, forse, ci sentivamo inutilmente felici per le scene facili che ci spuntavano intorno, con le ragazzine naziste sottobraccio e talmente sempre ubriachi che potevamo pisciarci sotto da un momento all’altro. Pensavamo di essere tutti protagonisti de L’Odio di Kassovitz anche se nessuno di noi era cresciuto nelle banlieue parigine ma eravamo tutti figli di massoni, avvocati, notai, medici, industriali, alti dirigenti, professori universitari.
È anche per questo che anche in trasmissione difficilmente passo dei pezzi dei Nirvana. Il tutto tocca troppo da vicino le mie emozioni e rievoca a caratteri cubitali la parola ORFANO che scorre a intermittenza davanti ai miei occhi anche questa sera da quando sono uscito dal cinema. Orfano, come Bruce Wayne
Scrivevo anche un sacco oltretutto, tutti i giorni. Pensieri, cronache, diari. Tantissime lettere. Scrivevo la notte, la sera, il pomeriggio e anche la mattina, in classe, quando avevo l’ardore di presentarmi a scuola. La molla mi venne dalla lettura di un libro intitolato Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (enfant prodige o enfant maudit, decidete voi), una raccolta composta dei suoi diari del periodo autunno ’63/estate ’66, pubblicati negli Stati Uniti nel 1978, che trovai casualmente tra gli scaffali impolverati di una libreria in Piazzale Susa che, ahimè, ha chiuso i battenti da tempo. Il vecchio Jim raccontava di giornate passate a giocare a basket, a sniffare detergente, scippare le borsette e girare a zonzo per New York tra resoconti di scopate moleste, pezzi di stagnola e botte di eroina. Praticamente il massimo. Atmosfere che cercavo di replicare nei miei scritti, con risultati alterni, mentre, per il resto del tempo, fondamentalmente, cercavo di sconvolgermi con qualsiasi tipo di sostanza mi capitasse a tiro. È questo oggi l’effetto che mi fa ascoltare la voce di Kurt Cobain, e probabilmente è anche la ragione per cui anche in trasmissione difficilmente passo dei pezzi dei Nirvana. Il tutto tocca troppo da vicino le mie emozioni e rievoca a caratteri cubitali la parola ORFANO, che scorre a intermittenza davanti ai miei occhi anche questa sera da quando sono uscito dal cinema. Orfano, come Bruce Wayne.
Il 2 dicembre, oltre a tre pagine di necrologi sul Corriere della Sera, c’è una struggente intervista di mio padre che dichiara: «Una tremenda sciagura ci ha colpiti con l’improvvisa scomparsa della nostra Renata». Dio solo sa quanto avesse ragione
Novembre 1980. È la mattina del 30 novembre, il giorno di Sant’Andrea e il sole splende alto nel cielo “pallido e indefinito come un alone di sperma sulle lenzuola faticose di un 13enne”. Papà, come il film di Kusturica, è in viaggio d’affari, a Stoccolma. A Milano, invece, nel principesco appartamento all’ultimo piano del palazzo di Via Amedeo d’Aosta al numero 8, fervono i preparativi per la partenza verso lo chalet in montagna, a Crans Montana, sulle Alpi svizzere. Qualche ora più tardi l’ammiraglia inglese di famiglia, una Rover 3500, con al volante mio zio Ezzelino, viaggia a velocità sostenuta. A bordo, oltre a lui, ci siamo io, che ho 10 mesi, Miky, un piccolo Yorkshire, mia zia Amelia e ovviamente mia madre, Renata. Usciti dal Traforo del Gran San Bernardo la strada è ghiacciata, mio zio perde il controllo dell’ammiraglia inglese di famiglia che esce di strada e precipita in una scarpata di circa 50 metri. Sul posto arrivano ambulanze, volanti della polizia, elicotteri. Dopo tre mesi di ricovero in una clinica a Martigny, un paesino nel Canton Vallese a sudest di Montreux, al crocevia delle strade che portano ai passi del Sempione e del Gran San Bernardo, io sopravvivo per miracolo. Renata invece muore sul colpo. Probabilmente le si spezza l’osso del collo mentre abbassa la testa cercando istintivamente di proteggermi mentre mi tiene in braccio. Aveva 37 anni. Il 2 dicembre, oltre a tre pagine di necrologi, sul Corriere della Sera c’è una struggente intervista di mio padre che dichiara: «Una tremenda sciagura ci ha colpiti con l’improvvisa scomparsa della nostra Renata». Dio solo sa quanto avesse ragione.

In seguito al crack finanziario che investì la mia famiglia riuscii a mantenermi esclusivamente grazie a un fondo fiduciario lasciatomi da mia madre depositato al Credit Suisse di Zurigo che percepii fino all’età di 27 anni e che potei iniziare a gestire solo una volta diventato maggiorenne, nel 1998. Peccato che quel giorno lo trovai completamente vuoto. Fu il regalo di mio padre per i miei 18 anni. Quei soldi servirono per pagare la sua latitanza tra Parigi, Sofia e Monaco di Baviera. Quattro anni di spese folli e opache, avvenute anche grazie alle disattenzioni svizzere. Fa parecchio sorridere infatti che oggi i giornali strombazzino con articoli a nove colonne l’inchiesta cosiddetta Suisse Secrets, condotta da oltre 160 giornalisti di 39 Paesi che, con un grande tempismo degno del miglior Sherlock Holmes, insinuerebbero il sospetto che la banca tra i suoi clienti possa avere persone che violano i diritti umani, uomini d’affari sotto sanzioni internazionali, ex dittatori, spie e faccendieri. Tra le persone che avrebbero avuto conti segreti in Credit Suisse c’erano, tra gli altri, il re Abdullah II di Giordania, i figli dell’ex dittatore egiziano Hosni Mubarak, l’ex viceministro dell’Energia del Venezuela Nervis Villalobos, al centro di varie inchieste per riciclaggio, un uomo d’affari dello Zimbabwe sanzionato dalle autorità statunitensi ed europee per i suoi legami con il governo dell’ex presidente Robert Mugabe, un trafficante di esseri umani nelle Filippine e un funzionario della Borsa di Hong Kong in carcere per corruzione. Una tradizione consolidata da anni che ha permesso all’epoca anche a mio padre di gestire a piacimento, mentre era latitante, un fondo fiduciario milionario intestato ad un minorenne.
Fa sorridere che oggi i giornali strombazzino con articoli a nove colonne l’inchiesta Suisse Secrets che con grande tempismo insinuerebbe il sospetto che la banca tra i suoi clienti possa avere uomini d’affari sotto sanzioni internazionali, ex dittatori, spie e faccendieri
Quando arrivo sotto casa inizia a scendere una pioggia leggera, così apro rapidamente il portone, prendo la bici in spalla, la infilo in ascensore e salgo al terzo piano solo dopo aver preso un pacco, con sopra scritto il mio nome sopra, che trovo appoggiato sopra la cassetta delle lettere. Una volta nell’appartamento reggo con entrambe le mani un bicchiere di vodka ghiacciato nella semioscurità del balcone mentre sulla città imperversa il temporale che ho schivato per un pelo, e guardo la copertina del libro contenuto nel pacco con sopra scritto il mio nome, che ho trovato appoggiato sopra la cassetta delle lettere. Il titolo è FINE DEI GIOCHI e la copertina è avvolta da una fascetta verde che recita: “Sono figlia di un padre assassinato. Una madre incarcerata. E nipote di una stronza”. Riesco a malapena a deglutire quando mi rendo conto che a scriverlo è stata Allegra.