Padre mostro

Luca Di Carmine
13/12/2021

Il libro che spiega meglio il gigantesco abbaglio estetico, teatrale, esistenzial-sociale del berlusconismo è una strana autobiografia: Il veleno nella coda di Francesco Mazza. Un racconto senza pudori e senza ostentazioni di spudoratezza.

Padre mostro

Berlusconi è tollerabile solo come fenomeno estetico. Si vede nella teatralità delle polemiche di questi giorni su una sua possibile ascesa al Quirinale, polemiche la cui apparenza etica (degno o indegno l’uomo più processato del ventennio di finire, tra l’altro, a capo della magistratura?) è sviante. Si è visto nei decenni di battaglie istituzionali, giudiziarie, ma prima ancora linguistico-lessicali e simboliche che hanno caratterizzato la sua ascesa, il suo apogeo, la sua caduta come uomo politico. Il Berlusconi “drago”, il Berlusconi “papi”, il Berlusconi “bunga bunga” (su cui, all’epoca, sarebbe venuto voglia di affidare l’analisi politica a un andrologo), il fantasmagorico Berlusconi “Topolanek” (epoca Villa Certosa), il Berlusconi piangente (a Brindisi, nel 1997, di fronte alla tragedia dei migranti della Kater I Ra­des), il Berlusconi “fit” e quello “unifit” (secondo L’Economist), il Berlusconi “patiens”, ferito da Massimo Tartaglia, nel dicembre 2009, con una statuetta del Duomo. Il Berlusconi dell’inizio, quello della calzamaglia davanti alla macchina da presa. L’uomo dal sole in tasca.

Il berlusconismo ne Il veleno nella coda di Francesco Mazza

Sul “Presidente”, “Il Pres”, “Il Dottore”, “Silvio”, secondo il grado di confidenza della persona che viene ammessa alla sua presenza, si sono esercitati tutti e in tutti i modi. Ma ancora, la qualità risolutiva del personaggio è estetica. Berlusconi non è uomo, è simbolo. Berlusconiano non è aggettivo, è character. Berlusconismo non è un semplice termine, è un’epoca. Da raccontare attraverso la sospensione dell’incredulità tipica del letterario. E il libro che racconta meglio il gigantesco abbaglio estetico, teatrale, esistenzial-sociale, del berlusconismo è un’autobiografia. Parliamo de Il veleno nella coda di Francesco Mazza (Laurana Editore). Ed è una strana autobiografia, in cui il protagonista non è il narratore, ma il padre. Massimo Mazza, nato povero e fattosi strada dal nulla, è stato un grande dentista, un eccellente chirurgo maxillo facciale, un pioniere di tecniche innovative applicate alla sua professione, con un enorme seguito in tutto il mondo: un guru dell’ortodonzia. E il dentista di Berlusconi. Fu proprio lui, all’indomani dell’’attentato’ di Tartaglia, a rimettere insieme la faccia al Presidente.

recensione de Il veleno nella coda
Francesco Mazza.

Quel demone dell’insoddisfazione che l’autore-protagonista riconosce in Berlusconi

E allo stesso tempo un «Re Mida al contrario», dice il libro, «capace di trasformare in merda qualsiasi cosa toccasse», un maniaco di famiglia, capace di terrorizzare la prole con scenate e distruzione di oggetti casalinghi, salvo, per tutto il resto del tempo, ignorare i figli considerandoli inesistenti, di mettere in piedi un bizzarro contratto con la moglie: lei in casa a fare bambini, lui in giro tra macchine sportive, amanti, soldi, vacanze (anche a Villa Certosa), di affidarsi a truffatori perdendo centinaia di milioni di lire, di stalkerare senza posa l’ultima amante (e probabilmente le precendenti), di curarsi il cancro col body building e gli integratori. E infine, solo e malato, di abbandonare tutti. Il suicidio del padre è la scena con cui si apre il libro di Mazza che ha commentato in un’intervista: «Mio padre è stato come una sciagura naturale. Incontenibile. Inspiegabile». Un uomo di talento e volontà, braccato dal suo demone interiore, «l’oscuro inquilino», lo definisce Mazza. Lo stesso “oscuro inquilino” – il demone dell’insoddisfazione – che l’autore-protagonista riconosce in Berlusconi, e che possiamo riconoscere nell’epoca berlusconiana: nella cerchia di potere, poi più che decimata dalle inchieste intorno al Reuccio di Arcore, nell’idea più generale che dopo l’epoca “brezneviana” della Dc, dopo le scene della Milano da bere, dopo il macello politico-giudiziario di Mani Pulite, si potesse andare avanti con quella sfrenatezza che Corrado Guzzanti, in una sua famosa gag sulla Casa delle Libertà aveva sintetizzato nello slogan: «Facciamo tutti un po’ come cazzo ci pare». E qui siamo al ritratto dell’epoca.

La «grande e valorosa tribù dei falliti»

Ma è lo stesso oscuro inquilino che alberga (più che altro scalcia), nel protagonista del libro. L’autobiografo. Uno che appartiene alla «grande e valorosa tribù dei falliti», come avrebbe scritto Eduard Limonov. Ex bambino prodigio televisivo, invitato regolarmente alla trasmissione Il raggio verde di Michele Santoro. Poi fallito. Ex autore a Italia Uno di programmi per giovani, con casa a Roma e nove milioni al mese. Poi licenziato. Ex autore di Striscia La Notizia, poi, nonostante lo stipendio, scappato via dalla corte di Ricci. E quindi fallito. E ancora, studente di cinema a New York e autore di cortometraggi e documentari premiati, ma, come pubblico, falliti. Autore di programmi culturali per Sky, alcuni davvero bellissimi (come quello su Ettore Majorana), ma senza riscontro. Così viene descritto l’incontro ad Arcore con un allora ministro della Repubblica donna. Bella, algida, sola in casa (a parte la presenza del Cav che va e che viene), vagamente ubriaca: «Fu probabilmente a causa dello champagne, ma a un certo punto ebbi la netta sensazione che la sua mano avesse sfiorato la mia. Un tocco lieve, rapidissimo, che tuttavia non mi era parso casuale. In quel momento, mi accorsi di avere un’erezione. Per un secondo mi estraniai dalla stanza e guardai la scena dall’esterno. Ricapitolando: ero a casa del presidente del Consiglio dove stavo flirtando apertamente con un ministro della Repubblica che, inconsapevolmente o meno, mi aveva appena fatto venire il cazzo duro».

il veleno nella coda: recensione del libro di Francesco Mazza
Il veleno nella coda, Laurana Editore.

Un’autobiografia priva di ogni pudore nel raccontare le debolezze

Ed eccoci al dato stilistico. L’autobiografia di Mazza è priva di qualunque pudore nel raccontare le debolezze proprie, degli altri, di quella società. Ma senza alcuna ostentazione di spudoratezza. Mazza scrive da non-scrittore: nessuna parola ricercata, niente di costruito, niente di manierista. Sembra un anti-scrittore. Ma il libro, retoricamente e non solo cronisticamente, funziona. Alla fine di tutto il figlio ritrova nel computer del padre, sotto al manifesto di Jack Nicholson in Shining, che il dottor Mazza teneva al muro non solo un’imprecisata serie di filmati pornografici. Ma anche una autobiografia. Breve. Secca. Motivata. Anche quella spudorata. Fa venire il dubbio che il padre mostro sia in realtà un padre nostro. Che l’oscuro inquilino, individuale, collettivo sia il marchio di un’epoca, certo, ma anche una irrigettabile eredità con cui, di padre in figlio, si devono fare i conti. Che il berlusconismo simbolico, il daimon sia sempre in agguato. Che la vita sia un combattimento di simboli, principati e potestà. Comprensibile solo come fenomeno estetico.