A parole, la politica è bravissima a celebrare le eccellenze italiane. Nei fatti, si vede come quasi sempre non si vada al di là delle intenzioni di principio. È passato più di un anno dai roboanti annunci del governo Conte sull’avvio di una imponente campagna pubblicitaria internazionale “straordinaria” a sostegno del Made in Italy così duramente colpito dalla pandemia. Dei 150 milioni stanziati a favore del ministero degli Esteri, circa un terzo dovevano essere indirizzati a promuovere il Belpaese. Eppure da allora nemmeno un euro è stato ancora speso. Anzi, come spesso accade con la nostra pubblica amministrazione (bravissima a decidere di spendere, meno a farlo), l’ingente somma rischia di rimanere nelle casse della Farnesina con tanto di inevitabili ricorsi giudiziari e strascichi polemici. L’ennesima storia all’italiana. Proviamo a ricostruirla.
Una pioggia di milioni per promuovere il Belpaese
Il ministero degli Esteri affida all’ambasciatore Lorenzo Angeloni, responsabile della Direzione Promozione del Sistema Paese, il coordinamento della campagna con l’obiettivo di varare in tempi record un’azione «nation branding distintiva e unificante, volta a celebrare le valenze dell’Italia e del Made in Italy nel mondo». I nostri diretti competitor (Spagna, Francia, Germania) si sono mossi per tempo sponsorizzando campagne promozionali per riportare i turisti nei rispettivi Paesi. Angeloni sa però che il ministero non ha le necessarie competenze tecniche e così decide di rivolgersi all’Ice. Il nostro Istituto per il commercio estero dovrebbe essere attrezzato visto che programma continuamente gare per sostenere la promozione di fiere, settori e prodotti. E così – e siamo già all’estate inoltrata del 2020 – partono le lettere di invito. Partecipano in molti, in alcuni casi consorziandosi per coprire i vari aspetti della campagna (la creatività, la produzione dei materiali, l’acquisto degli spazi, il digitale, i social, e così via) e tra questi blasonati nomi del settore, molti internazionali capaci di coprire con i loro uffici buona parte dei 26 Paesi identificati come target della campagna: Carat, Jakala, Armando Testa, Omnicom, Mindshare, Reply, più altre in associazione temporanea d’impresa. Il valore tecnico della proposta vale il 75 per cento, l’offerta economica solo il 25 per cento e questo dovrebbe garantire una scelta tecnicamente ineccepibile rispetto a chi giocherà al massimo ribasso.

I colossi della pubblicità battuti da Pomilio Blumm
Eppure dalla gara i colossi restano tutti esclusi. Alla fine la commessa viene assegnata a Pomilio Blumm, una piccola agenzia di Pescara, nota nell’ambiente per vincere con ribassi record molte gare pubbliche rivendicando con tanto di scuse ai committenti l’impossibilità di stare nel prezzo d’offerta. Pomilio, dal nome dell’omonima famiglia che l’ha fondata, offre un ribasso del 56 per cento sul prezzo base, poco più di 20 milioni su 40. Ma nessuno all’Ice si pone il problema oggettivo su come riuscirà a mettere spot e pagine pubblicitarie sui media di 26 Paesi nel mondo, né eccepisce su un ribasso così anomalo. L’Anac rinvia il dossier all’Ice per un approfondimento che l’Istituto non fa e aggiudica la gara a Pomilio in associazione con la milanese Triboo, il cui presidente Riccardo Maria Monti, quando si dice il caso, è stato presidente di Ice sotto i governi Monti, Renzi e Gentiloni, e con LVenture Group, azienda incubatrice di start up supportata dall’Università Luiss. Insomma, non certo società note per le loro campagne pubblicitarie a favore di clienti internazionali. Alcuni partecipanti alla gara fanno ricorso. Decideranno dunque il Tar e in ultima istanza il Consiglio di Stato se il procedimento sia stato o meno corretto. Intanto il Made in Italy, che ha già aspettato tanto, può aspettare ancora.