Ci siamo dimenticati di Hong Kong

Redazione
23/06/2021

Nella regione ha chiuso la testata Apple Daily, principale organo dissidente, ed è iniziato il primo processo per la violazione della legge sulla sicurezza nazionale, imposta da Pechino per mettere un freno alle proteste degli ultimi anni. Il principio "uno Stato, due sistemi" trova sempre meno applicazione, mentre l'ombra cinese sull'ex colonia britannica è ormai dominante.

Ci siamo dimenticati di Hong Kong

Che lo stato della democrazia ad Hong Kong fosse in pericolo era cosa risaputa da tempo, e gli sviluppi degli ultimi giorni non fanno altro che ricordarcelo. E che le proteste degli ultimi anni, da quella “degli ombrelli” del 2014 a quelle del biennio 2019-20 non avessero prodotto risultati, è purtroppo un altro fatto noto. La stretta di Pechino sull’ex colonia britannica è cominciata da tempo, molto prima della fine del “regime transitorio” (fissata al 2047) che, nel passaggio di sovranità su Hong Kong da Londra alla Cina, avrebbe dovuto lasciare un certo grado di autonomia e assicurare il principio di “un Paese, due sistemi”.

I sistemi, invece, sono sempre più unificati, e in una maniera per la quale appare sempre più vicino l’assorbimento, lento ma inesorabile, della città nella Cina continentale. Proprio in questo senso la giornata del 23 giugno potrebbe rappresentare l’inizio della fine dell’autonomia di Hong Kong, in maniera molto più concreta che simbolica: il giornale Apple Daily, voce dissidente e invisa a Pechino, ha annunciato la chiusura della testata sia nella versione cartacea che in quella online. Contemporaneamente, è iniziato il primo processo – senza giuria – a un manifestante di Hong Kong secondo la nuova legge sulla sicurezza nazionale, quella con cui la Cina ha sostanzialmente “inglobato” l’ex colonia inglese.

https://twitter.com/appledaily_hk/status/1407293926143258626

Cos’è la legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong

Approvata a giugno 2020 dal comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo di Pechino (il parlamento cinese), la legge sulla sicurezza nazionale punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con forze stranieri che hanno luogo sul territorio di Hong Kong. L’articolo 23 della Legge fondamentale di Hong Kong (la sua costituzione) stabilisce che è compito del Consiglio legislativo regionale approvare un testo che punisca qualsiasi atto sovversivo contro la Cina, ma i precedenti tentativi di emanare questa legge (il primo nel 2003) hanno scatenato le fortissime reazioni dei cittadini. La scelta di Pechino del 2020, nei fatti, ha aggirato il Consiglio legislativo locale, approvando a livello centrale un atto vincolante per gli abitanti dell’ex colonia: una violazione abbastanza evidente del principio dei due sistemi. Inserita nella Basic Law di Hong Kong, la legge è stata duramente condannata dalla comunità internazionale, dai vicini del Giappone e da Unione europea, Usa e Regno Unito, mentre le autorità locali l’hanno accolta favorevolmente: Carrie Lam, capo esecutivo di Hong Kong, ringraziò «di cuore» Pechino per il provvedimento, che avrebbe colpito «una piccola minoranza». La legge, fondamentalmente, serve per permettere alla Cina di mettere un bavaglio alle proteste dei cittadini di Hong Kong, che durano da tempo.

Le proteste di Hong Kong del 2019-20

Negli ultimi due anni, infatti, la popolazione è scesa più volte – e con numeri altissimi – in piazza per protestare contro il governo locale e contro le intrusioni della Cina. A inizio 2019 i cittadini iniziarono delle fortissime manifestazioni contro un’altra proposta di legge, che avrebbe permesso a Hong Kong di estradare dei latitanti in Cina e Taiwan, Paesi con cui la regione non ha accordi in questo senso. Le proteste nacquero proprio perché, così, i tribunali cinesi avrebbero di fatto avuto la giurisdizione anche sul territorio autonomo. Da marzo 2019 in poi il movimento Demosisto, ora sciolto, riuscì a portare in piazza fino a mezzo milione di persone: una movimentazione senza precedenti, motivata dalle richieste di dimissioni per Carrie Lam e di ritiro della proposta di legge. Con l’accantonamento della legge sull’estradizione la situazione, ad Hong Kong, si calmò per qualche mese. Le proteste ricominciarono con forza nella seconda metà del 2020, in piena pandemia da Covid-19, proprio come rivolta nei confronti della legge sulla sicurezza nazionale. La stretta di Pechino sul provvedimento arrivò per permettere alla Cina di mettere un freno a queste rivolte. Alla fine, furono almeno 9000 gli arresti tra i manifestanti.

La rivoluzione degli ombrelli di Hong Kong

Cinque anni prima, Hong Kong fu protagonista di altre importanti manifestazioni di massa: a partire dal 26 settembre 2014, e per 79 giorni, la popolazione scese in piazza per chiedere il suffragio universale: simbolo della protesta gli ombrelli, aperti dai manifestanti per ripararsi dai gas lacrimogeni lanciati dalle forze dell’ordine. I leader delle proteste, prevalentemente giovani, nel 2019 – in concomitanza con le altre proteste  – saranno poi condannati a pene detentive (dai 6 ai 16 mesi) che ne hanno bloccato la carriera politica, vista l’interdizione dai pubblici uffici per almeno 5 anni.

Hong Kong, cosa succede ora

Le ultime notizie possono invece sembrare dei segnali di resa da parte di Hong Kong e di vittoria di Pechino. Con il processo nei confronti di Tong Ying-Kit, 24enne arrestato nel 2020 con l’accusa di incitamento alla secessione e terrorismo per aver investito un gruppo di agenti con la propria moto, inizia ad applicarsi la nuova legge sulla sicurezza. Sulla moto, infatti, il giovane portava una bandiera con scritto «liberare Hong Kong, la rivoluzione del nostro tempo», uno slogan considerato una minaccia alla sicurezza nazionale: rischia fino all’ergastolo. Non ci sarà, però, una giuria a giudicarlo, circostanza invece prevista fino all’entrata in vigore della legge per i reati che prevedono pene tanto gravi. Il suo caso passerà sotto il giudizio di tre magistrati. Nel frattempo, ha annunciato la sua chiusura Apple Daily, principale testata pro-democrazia che negli ultimi tempi ha visto i suoi giornalisti arrestati, beni pari a 2 milioni di euro congelati e l’editore, Jimmy Lai, in carcere da dicembre per “manifestazioni non autorizzate”. La settimana scorsa, quando ormai era già chiaro il destino del giornale, ben 500 poliziotti entrarono nella sede di Apple Daily per arrestare il direttore, Ryan Law, e cinque capiredattori, accusati di aver violato la legge sulla sicurezza per aver, in numerosi articoli, chiesto ad altre nazioni di imporre sanzioni su Hong Kong e la Cina. Così, l’edizione del 26 giugno sarà l’ultima, di una delle ultime voci dissidenti rimaste.