Founé Diawara aveva 15 anni quando un arbitro le impedì di giocare a calcio con l’hijab. Era stata convocata da poco nella squadra di un club di Meaux, a nord est di Parigi. Si trattava di una partita importante e il veto posto sul velo dalla Federazione calcistica della Francia (FFF) la costrinse a uscire dal campo e guardare le compagne dalla panchina. È stato proprio quest’episodio a convincerla a entrare nel collettivo delle Hijabeuses, giovani calciatrici che protestano contro il divieto della FFF (che, contrariamente alla Fifa che lo ha abrogato nel 2014, continua ad applicarlo tanto nelle partite in casa quanto nei match internazionali) e lottano per una società più inclusiva e meno islamofoba.
Come sono nate les Hijabeuses
Nata a maggio 2020 dall’iniziativa di alcuni membri dell’Alliance Citoyenne, associazione impegnata a combattere le ingiustizie sociali in Francia, la comunità di hijabeuses parigine conta oggi più di 100 adesioni. Giocano a calcio, dialogano con gli altri team francesi e organizzano allenamenti e incontri per incoraggiare altre ragazze con l’hijab ad avvicinarsi al pallone senza sentirsi obbligate a scegliere tra la passione sportiva e la propria identità. Come è successo a Diawara, oggi studentessa 21enne e co-presidente dell’organizzazione: «Mi sono sentita intrappolata davanti a un bivio, obbligata a scegliere tra qualcosa che amo, il calcio, e qualcosa che mi definisce come persona», ha raccontato in un’intervista al Guardian.

In campo per combattere gli stereotipi
Per molte atlete, les Hijabeuses sono diventate una famiglia, un rifugio dove trovare persone che condividono l’amore per lo sport e lottano quotidianamente contro gli stereotipi. «Ogni giorno mi incoraggiano e mi spingono a fare meglio», ha spiegato la 19enne Hawa Doucouré. Studentessa di informatica, ha imparato a giocare a calcio da piccolissima ma, soltanto grazie al collettivo, ha cominciato a pensare di passare al livello agonistico. «Da donna, non mi sono mai spinta oltre e non ho mai davvero considerato la possibilità di poter entrare in una squadra. Diventare parte del gruppo ha cambiato tutto: da quel momento, ho iniziato a giocare sul serio», spiega. Un sentimento condiviso anche dalla 18enne Karthoum Dembélé. Iniziata al calcio dal fratello maggiore, ha dovuto affrontare sin da subito i pregiudizi di un ambiente in cui, quasi sempre, era l’unica ragazza. «Amo tutto di questo sport, la competizione, le vittorie, le emozioni che ti regala», ha sottolineato. «Diventare una delle hijabeuses ha significato tanto per me perché ho avuto la fortuna di giocare liberamente. Ho trovato uno spazio sicuro, dove regna la solidarietà. Ridiamo tanto e condividiamo tutto». Il suo sogno è diventare professionista e arrivare ai club più importanti ma se il divieto non verrà abrogato sarà costretta a rinunciare a tutto e a rivedere i suoi piani.
Un collettivo per tutte le età
Ma nel collettivo non c’è spazio solo per le giovanissime. Ne sono la prova la 29enne Leïla Kellou e la 27enne Bouchra Chaïb. La, prima, franco-algerina, ha iniziato a indossare l’hijab a 19 anni, di sua spontanea volontà. Per questo non capisce come mai, in Francia, la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica consideri le donne musulmane vittime. Esattamente come è successo anche all’altra co-presidente delle Hijabeuses. Ostetrica, Chaïb gioca a pallone per hobby e, quando lo fa, le piacerebbe essere vista «più che come una calciatrice con l’hijab, come una donna che ama il calcio». A farle scoprire l’associazione è stato un brutto episodio durante una partita. Pur indossando un copricapo approvato dalla FFF, è stata costretta a toglierlo senza spiegazioni. «Il nostro obiettivo principale è far capire alle donne che sono libere di giocare senza essere stigmatizzate e senza l’ansia di dover affrontare una battaglia. Perché è proprio così che ci si sente prima di una partita».
Una battaglia complicata
Nonostante le loro continue richieste, la Federazione si è rifiutata di intavolare qualsiasi tipo di dialogo, appellandosi allo statuto e alla laicità dello Stato. Un principio che, negli ultimi 10 anni, ha giustificato l’eliminazione dei simboli religiosi dalle scuole e dai luoghi pubblici. «Ci trattano come dei bambini, come se non avessimo un cervello», ha sottolineato Doucouré. «Ci immaginano incapaci di pensare credendo di essere degli eroi che salvano le donne dall’hijab». La battaglia è ancora lunga ma le Hijabeuses non hanno alcuna intenzione di mollare. «Non ci interessa promuovere la nostra religione», ha spiegato Diawara. «Siamo qui perché ci piace giocare a calcio. Quel che conta è solo e sempre il gioco».