Andrea Frateff-Gianni ha 43 anni e un’eleganza disperata da superstite. È un uomo che indossa molti cappelli, sia fisicamente che metaforicamente. In un giorno qualsiasi, può preparare Martini dietro al banco di un bar radical-chic in centro a Milano, fare il disc-jockey, scrivere per una pubblicazione nazionale o meditare sul suo prossimo racconto per la rubrica che tiene settimanalmente su una testata on line. Nella furia cieca dei suoi pensieri vive un film tutto suo che quotidianamente gira nella sua testa all’interno del quale veste i panni di una vittima sacrificale, perseguitata e incompresa. Rimasto precocemente orfano di madre in seguito a un terribile incidente stradale all’età di 10 mesi soffre di una cronica sindrome d’abbandono che da sempre ha condizionato la sua esistenza portandolo ad avere tremendi problemi relazionali prima con la sua famiglia disfunzionale e in un secondo momento anche con l’altro sesso.
Ultimo erede di una dinastia sfolgorante e folgorata, spesso, paragona la storia densa di sciagure della sua famiglia a quella dei Kennedy, più che altro per sentirsi parte di qualcosa o più semplicemente perché lo ritiene terribilmente chic. Se lo osservaste, in questo momento, lo vedreste ciondolare in giro per il suo appartamento, che si affaccia su un viale alberato in zona Porta Venezia a Milano, mentre sul piatto in salotto gira un vinile blu elettrico di My favorite things di John Coltrane, con in mano l’iPad, intento a sfogliare un giornale qualsiasi, tipo Rep o il Corsera, e leggere un po’ di notizie. Le prime pagine sono dedicate ai disastri causati dall’alluvione che ha investito l’Emilia-Romagna. Si parla di “apocalisse”: gente morta annegata in casa o in auto, soffocata dal fango. Donne trascinate via dall’acqua per 20 km. Danni paragonabili a quelli di un terremoto. Decine di migliaia di sfollati. Campi sommersi. Paesi devastati. Una catastrofe assoluta. Il resto è di poca importanza: il tweet di Salvini, l’ennesimo inutile scontro tra Renzi e Calenda, le dichiarazioni della Schlein in una surreale conferenza stampa dopo il primo turno delle Amministrative, il caso dei tre artisti africani della Biennale di Venezia a cui è stato negato il visto, la condanna a tre anni di carcere per corruzione dell’ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy. Poi, di colpo, balza agli occhi un articolo che cattura la sua attenzione riguardante un presunto inseguimento da parte dei paparazzi al principino Harry e alla moglie avvenuto l’altra notte per le strade di New York. Un fatto che è stato definito da un portavoce della coppia «quasi catastrofico» e che a molti ha ricordato quanto avvenuto a Parigi a Lady Diana 26 anni fa.
Una lenta dissolvenza e di colpo l’immagine di Andrea Frateff-Gianni balza sul sedile del passeggero di una BMW iX elettrica nera diretta verso il Lago di Como mentre, in sottofondo, dalle casse dello stereo suona She’s Not a Disco Lady dei Fratelli La Bionda. Al volante c’è suo cugino, al secolo Giorgio Cetti Serbelloni, che al momento indossa un completo blu Ermenegildo Zegna, una camicia sartoriale con collo alla francese con le iniziali GCS ricamate sul taschino e una cravatta di seta Ralph Lauren.
«Quindi ti piace il mio nuovo mezzo, cugino?».
«Beh, fantastico cugi. Non ha niente da invidiare alla Mase Levante che avevi prima».
«Cazzo, sì, guardati intorno. È come stare in salotto! E poi questo impianto hi-fi della Bowers & Wilkins da 5K, mi fa letteralmente impazzire. Ha 30 altoparlanti, otto dei quali integrati nei poggiatesta dei sedili anteriori e posteriori, e una funzione audio 4D controllo magnetico nei sedili anteriori capace di creare a bordo un’atmosfera da sala da concerto. Un’autentica bomba! Sembra di stare al Nepentha, cugino!».
«A proposito del Nepentha, che a me fa venire sempre in mente Yuppies, oggi leggevo il giornale e ho visto la notizia dell’inseguimento per le strade di Manhattan del principino che a dire il vero mi è sembrata un po’ una pagliacciata. Mi è venuta in mente però quella volta che siamo stati inseguiti anche noi dai paparazzi e se non erro eravamo sulla tua Volvo, ovviamente con il telefono a bordo come Ezio Greggio nel film dei Vanzina, ti ricordi? Eravamo al mare con la Betta e Allegra, molti anni prima che ci mettessimo insieme, e lei fuori dal Covo ci aveva chiesto un passaggio per tornare a Santa perché aveva i fotografi alle calcagna».
«Come no, inseguimento mitico, sembrava di stare a Via Veneto ai tempi de La dolce vita. Ricordo che per seminarli ci siamo dovuti infilare nella villa di Ambrosio e aspettare che se ne andassero».
«Vero, cazzo, hai ragione. Secondo me avevano appena ammazzato suo padre, io avevo 15 anni e con Allegra ci conoscevamo ancora poco. Ci eravamo visti solamente qualche volta al Madame Claude».
«Ma che fine ha fatto? La senti ancora?».
«Ma va, zero. L’ho incontrata per caso tempo fa con un cappotto viola e un Borsalino in testa, che teneva per mano una bambina in Stazione Centrale. Me la sono squagliata immediatamente, ma non la vedevo da tipo 10 anni. Credo abbia due figlie e che sia ancora sposata con “il re dei panettoni”».
«Era un bel fighino, cugino, io te lo dissi subito».
«Eh, lo so. Però era completamente pazza».
«Oggi leggevo il giornale e ho visto la notizia dell’inseguimento per le strade di Manhattan del principino che a dire il vero mi è sembrata un po’ una pagliacciata. Mi è venuta in mente però quella volta che siamo stati inseguiti anche noi dai paparazzi e se non erro eravamo sulla tua Volvo. Eravamo al mare con la Betta e Allegra e lei fuori dal Covo ci aveva chiesto un passaggio per tornare a Santa perché aveva i fotografi alle calcagna»
Agosto 1995. È quasi finita l’estate. Ludovica è partita ieri, tornata a Milano con la famiglia, e io vago incerto, senza meta, avanti e indietro nel giardino di casa di mia nonna sulle Hills tra Rapallo e Santa. Il campo da tennis è coperto da foglie e aghi di pino, il cielo è grigio e io, scalzo, indosso un paio di short sdruciti, ricavati da un vecchio paio di Levi’s tagliati sopra al ginocchio, una polo grigia Ralph Lauren a manica lunga e occhiali scuri Ray-Ban Wayfarer anche se non c’è un briciolo di sole. Non che mi manchi Ludovica, che tra l’altro per tutta l’estate non ha voluto nemmeno scopare, ma mi sento piuttosto strano, quasi debole. Poi mi frugo in tasca in cerca di una sigaretta. Voglio andarmene da qui. Poi il cielo schiarisce, le nubi si dissolvono e la temperatura sale di 10 gradi in quindici minuti. La sera sono a cena a casa della moglie di mio cugino Giorgio, in una villa ancora più grande della nostra a picco sul mare a Portofino. Sono entrambi abbronzatissimi, appena tornati da Marrakech, e Betta in terrazza si fa vento con un invito di una festa che si terrà più tardi al Covo di Nord-Est. Poi un uomo, anche lui abbronzatissimo, mi si avvicina e mi domanda se desidero qualcosa da bere. Ha una camicia bianca aperta sul petto, come una vecchia rockstar, deve essere Franco Ambrosio, il padrone di casa. Guardo il cugino in lontananza e mi chiedo se quest’uomo per caso non conosca mio padre. Abbasso gli occhi e mi rendo conto che non ho niente da dire, ma tento comunque di rispondere in qualche modo; poi penso a Ludovica e rifletto sul fatto che sì, forse un po’ mi manca, continuando a chiedermi se quest’uomo per caso non conosca mio padre. Mentre mi allontano verso il bar, in cerca di qualcosa da bere trovo un portafoglio per terra e inizio a frugarci dentro. Ci sono un sacco di biglietti da visita, ma io non ne guardo nemmeno uno perché ho paura di trovarci quello di mio padre. Ci sono anche un mucchio di carte di credito e una discreta cifra di banconote da 50 e 100 mila lire. Ne prendo un paio e me le infilo in tasca, poi lascio il portafoglio dove l’ho trovato e raggiungo gli altri in terrazza. Per tutta la durata della cena non apro bocca, penso a Ludovica e alle serate trascorse assieme a baciarci avidamente e a fumare spini sottilissimi sui gradini sotto casa sua a Rapallo, dietro il Parco Casale.
Allegra si aggrappa al mio braccio, dice qualcosa che non riesco a capire poi mi sporgo verso di lei quando mi accorgo che sta piangendo. Abbiamo 15 anni io e 14 lei. Ancora entrambi non sappiamo che tempo dopo ci rovineremo la vita a vicenda. Era l’estate del 1995. Mia madre e suo padre erano già morti. Lady Diana era ancora viva
Arriviamo al Covo che è quasi mezzanotte, sono leggermente agitato perché è la prima volta che ci metto piede, anche se faccio finta di niente e mi do un sacco di arie perché a Milano faccio il pierre al Madame Claude. Parcheggiamo la Volvo di mio cugino sul retro del locale, in un vicolo che sale sopra la strada verso Portofino, e quando arriviamo davanti all’ingresso ci facciamo largo tra la calca di ragazzi in attesa di entrare. Qualcuno protesta ma mio cugino li ignora tenendo Betta per mano e facendomi cenno di seguirlo. Dietro c’è una specie di ingresso di servizio, lo chiamano Covino, dal quale si accede oltrepassando una specie di corridoio buio come una caverna che lo divide dal locale e dove gruppi di persone si accalcano nell’oscurità. Quando entriamo, il proprietario, sui 50, se la sta vedendo con un gruppo di ragazzini che tentano di entrare anche se chiaramente non hanno l’età per farlo. Cioè più o meno la mia. Il cugino gli stringe la mano e il tizio ci fa passare, facendogli l’occhiolino. Attraversiamo la sala affollata mentre a palla suona Tainted Love, la pista da ballo e zeppa di gente e al banco del bar c’è un ragazzo con il colletto della polo Ralph Lauren tirato su che mi sembra di conoscere. È fatto come una scimmia, mi fissa e io restituisco lo sguardo, confuso, chiedendomi chi sia e riflettendo sul fatto che probabilmente l’ho visto a Milano al Madame Claude. Poi decido di andare in bagno e dato che ho ancora un po’ di coca nella tasca dei jeans mi chiudo dentro e decido di finirla, stendendo due righe sul pianale in marmo di fianco al lavandino e tirarle su, arrotolando una delle banconote che ho rubato prima dal portafoglio di Ambrosio. Mi lacrimano gli occhi e deglutisco. Una volta uscito dal bagno finalmente pare che la serata inizi ad avere un senso e casualmente è proprio in quel preciso momento che incrocio Allegra, completamente ubriaca, con in mano quello che penso essere un gin tonic, che quasi mi sbatte addosso.
«Ciao, Andre. Cosa ci fai qui?».
«Sono appena arrivato».
«Oh. – Tace per un attimo. «Con chi sei venuto?».
«Sono con mio cugino e sua moglie che hanno raggiunto dei loro amici. Che posto pazzesco».
«C’è troppa confusione. Io anche sono qui con degli amici di mia sorella, ma non conosco nessuno».
Poi mi mette una mano sulla gamba e mi sussurra all’orecchio: «Andiamocene. Subito».
[Conobbi Allegra nell’inverno del 1994, alla discoteca Madame Claude di Piazza San Babila e poteva essere novembre oppure gennaio. Ricordo solo che faceva freddo e che le prestai il mio Barbour, rimanendo a congelarmi stretto in una polo rugby a righe rosse e blu Ralph Lauren, mentre ci rollavamo uno spino seduti uno di fianco all’altra sui gradini del Break, in Piazzetta Giordano, davanti all’entrata del locale. Qualche mese dopo spararono in faccia a suo padre in via Palestro, davanti al suo ufficio, a pochi metri da casa].
Così siamo fuori e a un certo punto ci accorgiamo che un vecchio – avrà 40, 45anni – ci sta osservando. Di colpo tira fuori una macchina fotografica e inizia a scattarci foto come un matto, Allegra inizia a urlare e prendendomi per mano mi porta di nuovo dentro al Covo così cerchiamo sua sorella che non riusciamo a trovare e quando becchiamo mio cugino lo preghiamo di andarcene, anche perché ormai sono quasi le tre. Quando usciamo dal retro e arriviamo alla sua macchina ci sono cinque uomini che ci seguono. «Cosa volete? Lasciatemi in pace!», urla Allegra, prima di salire a bordo e chiudere la portiera. Il cugino mette in moto la Volvo, sgomma e parte. In macchina siamo lui, io Allegra e Betta che guarda ansiosamente nello specchietto retrovisore. Siamo inseguiti da cinque uomini in scooter. L’aria dentro la Volvo sembra pericolosamente radioattiva e io vorrei assolutamente un’altra pista di coca, mi attacco alla maniglia interna cercando di non perdere l’equilibrio quando il cugino accelera e osservo dietro al finestrino gli scooter che lentamente si allontanano. Allegra si aggrappa al mio braccio, dice qualcosa che non riesco a capire poi mi sporgo verso di lei quando mi accorgo che sta piangendo. Abbiamo 15 anni io e 14 lei. Ancora entrambi non sappiamo che tempo dopo ci rovineremo la vita a vicenda. Era l’estate del 1995. Mia madre e suo padre erano già morti. Lady Diana era ancora viva.
*I personaggi e le storie di questo racconto sono frutto di invenzione.